domenica 23 febbraio 2014

Fëdor Michajlovič Dostoevskij - Povera gente

Succede che un giorno, mentre te ne stai andando verso i cinquanta, ti sorprendi a pensare che hai letto poco di Dostoevskij. 
Succede che pensi che non sta bene. Che a te non sta bene. 
E allora decidi che è arrivato il momento di mettersi a leggerlo. 
Dall'inizio. 
Tutto. 

Opera prima di Dostoevskij, pubblicata nel 1846 all'età di ventiquattro anni e certamente opera minore, nonostante l'immediato successo riscosso. 
Si tratta di un romanzo epistolare ambientato a Pietroburgo e parzialmente ispirato al Cappotto gogoliano. Una trama lineare: il fitto carteggio ed i pochi incontri tra Makar Djevuskin e Varvara Dobrosjelova, lui maturo copista e lei giovane orfana, che si raccontano le reciproche disavventure, i casi della vita, le loro storie di povera gente, cercando di sostenersi a vicenda, lasciando intravedere un sentimento destinato a rimanere sulla carta perché Djevuskin non vorrà mai ammetterlo, parlando sempre di amore paterno. Alla fine Varvara deciderà di accettare la proposta di matrimonio di un ricco e vecchio possidente per togliersi dalla posizione di indigenza ed anche per aiutare economicamente l'amico Makar che però precipiterà nello sconforto non riuscendo ad accettare la decisione della ragazza. 
Pur nella semplicità dell'argomento trattato, con descrizioni di maniera e qualche scivolamento nel patetismo, mi sembra di poter dire che in Povera gente è già in nuce quell'attenzione all'introspezione, quello scavo nei sentimenti dei protagonisti che caratterizzeranno tutta la produzione letteraria di Dostoevskij. L'affetto che Makar e Varvara dicono di provare l'uno per l'altro alla prova dei fatti dimostra di non essere immune da una buona dose di egoismo. Il copista, ad esempio, sacrifica buona parte dei suoi magrissimi guadagni ed accetta di vivere nella miseria più nera pur di aiutare la ragazza, ma il suo aiuto non sembra poi tanto disinteressato (“voi intanto pensate di lasciarci; ma tenete bene a mente che a me può capitare un guaio serio. Voi rischiate di rovinarvi, e di rovinare me”). Più che sostenere la giovinetta Makar sembra volerle rimanere attaccato come un naufrago ad una zattera dalla quale dipende la sua salvezza (“ma se poi vi aiuto, povero me, mi scappate via come un uccellino dal nido che quei brutti gufi, quegli uccellacci da rapina si preparano a farne un boccone”). Dal canto suo Varvara dimostrerà di non essere da meno: quando capita l'occasione propizia la coglie al volo, accettando di sposare un uomo che non ama, dimostrando di riuscire a mettersi alle spalle il passato senza troppi sensi di colpa nei confronti dell'amico. 
Anche il genere letterario scelto da Dostoevskij per il suo primo romanzo è funzionale al tipo di ricerca che l'autore si propone di sviluppare. Grazie all'epistola, infatti, può esprimersi per monologhi più che per dialoghi, monologhi che – come osserva M. Bachtin – sono costruiti tenendo sempre in considerazione l'interlocutore assente (“nella sua prima opera Dostoevskij elabora lo stile così caratteristico di tutta la sua opera, di tutta la sua creazione, determinato dalla intensa anticipazione della parola altrui”). In Povera gente l'altro, anche se non nominato, è sempre presente: Djevuskin si sente giudicato, pensa sentendosi osservato e poi agisce in base a questo sentire. Quella dell'altro è una presenza qui solo abbozzata e non ancora pienamente sviluppata ma è una costante fondamentale che verrà ripresa ed esplorata più compiutamente nelle opere successive del grande russo.

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