“Sono come
una gestante che porta dentro il proprio ventre un feto e che si trova
contemporaneamente nel ventre del suo stesso feto”
È un
piacere e un privilegio entrare nella creazione di Moresco in punta di piedi,
lasciando che le cose si svelino un po’ alla volta, seguendole con lo sguardo
meravigliato, quasi da bambino, del protagonista, che osserva il mondo e le sue
dinamiche come fosse la prima volta.
Il mondo, i
mondi. Tanti mondi differenti: quello del seminarista sordomuto e delle sue
api, quello misterioso del Gatto… quelli di tutti i personaggi che via via
appaiono, scompaiono e a volte si ripresentano sulla scena e che sembrano
venire da altre storie. Mondi che il protagonista attraversa come una pallina
che rotola su un piano leggermente inclinato, assecondando le curve del
percorso spinta da una forza inerziale che sembra prescindere dalla sua
volontà. Scivola lentamente nel mondo e descrive quello che vede, senza cercare
di interpretare, ma semplicemente raccontando. Un ritorno all’origine, un
tentativo di ripulire la narrazione da tutte le costruzioni che nel tempo si
sono stratificate appesantendola e portandola sempre più lontano dal suo scopo
originale: Moresco rimette al centro l’osservazione e cerca di farlo nella
maniera più onesta possibile, evitando giudizi o eccessive spiegazioni,
sforzandosi di restituire al lettore persone, fatti e comportamenti nella loro
essenza.
Un’osservazione
dal basso ma non un’osservazione di basso livello, tutt’altro. Perché Gli esordi
non è una piatta esposizione di avvenimenti, ma un percorso ricco di sfumature
(la mano intravista e le caviglie immaginate della suora nera, gli esercizi del
Gatto, gli spostamenti della Pesca…) e soprattutto metafore, vere o apparenti
(penso, ad esempio, al volo irregolare dei piccioni ubriachi e alla pallina su
cui soffiano il protagonista e il Gatto nella prima parte, a quella strana
corte dei miracoli che lo accompagna nella seconda e al biografo che invecchia
a velocità impressionante nella terza), che rappresentano fessure nelle quali
il nostro occhio e la nostra fantasia possono infilarsi per trasformare il
mondo di Moresco nel nostro mondo, il suo libro nel nostro libro: porte che
aprono infinite possibilità per immaginare altre storie.
Il mondo de
Gli esordi è lo specchio del nostro mondo, ma uno specchio deformante, che
restituisce all’occhio una realtà
alterata. Magari non in maniera evidente fin da subito, ma solo in qualche
particolare (il viso diviso in due del padre priore, Ziò che spara
all’albero…), come se Moresco ci invitasse a rallentare e a soffermarci su
quello che di solito diamo per scontato.
Per tutta
la prima parte del romanzo il protagonista non dice parola e nella seconda si
aggira per le pagine del libro come un sonnambulo incapace di mettere a fuoco
quello che accade intorno a lui, eppure nessuno degli altri personaggi sembra
farci caso. Un protagonista senza nome che vive in uno stato di perenne
spaesamento: fatica a capire in quale città si trova, in che giorno, in che
stagione. Va avanti senza punti di riferimento, galleggia nella realtà senza
decidere nulla, eseguendo gli ordini che altri gli impartiscono, facendo quello
che gli viene chiesto. Lui osserva, ascolta, aiuta, gli altri parlano e non
sanno più guardare. Il mondo disegnato da Moresco è un mondo nel quale le
dinamiche dell’Io sembrano aver definitivamente sbaragliato quelle del Noi e
dove dominano l’indifferenza e l’anaffettività. Un mondo che probabilmente ci è
abbastanza familiare.
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