domenica 5 giugno 2016

Antonio Moresco – Gli esordi

“Sono come una gestante che porta dentro il proprio ventre un feto e che si trova contemporaneamente nel ventre del suo stesso feto”

È un piacere e un privilegio entrare nella creazione di Moresco in punta di piedi, lasciando che le cose si svelino un po’ alla volta, seguendole con lo sguardo meravigliato, quasi da bambino, del protagonista, che osserva il mondo e le sue dinamiche come fosse la prima volta.
Il mondo, i mondi. Tanti mondi differenti: quello del seminarista sordomuto e delle sue api, quello misterioso del Gatto… quelli di tutti i personaggi che via via appaiono, scompaiono e a volte si ripresentano sulla scena e che sembrano venire da altre storie. Mondi che il protagonista attraversa come una pallina che rotola su un piano leggermente inclinato, assecondando le curve del percorso spinta da una forza inerziale che sembra prescindere dalla sua volontà. Scivola lentamente nel mondo e descrive quello che vede, senza cercare di interpretare, ma semplicemente raccontando. Un ritorno all’origine, un tentativo di ripulire la narrazione da tutte le costruzioni che nel tempo si sono stratificate appesantendola e portandola sempre più lontano dal suo scopo originale: Moresco rimette al centro l’osservazione e cerca di farlo nella maniera più onesta possibile, evitando giudizi o eccessive spiegazioni, sforzandosi di restituire al lettore persone, fatti e comportamenti nella loro essenza.
Un’osservazione dal basso ma non un’osservazione di basso livello, tutt’altro. Perché Gli esordi non è una piatta esposizione di avvenimenti, ma un percorso ricco di sfumature (la mano intravista e le caviglie immaginate della suora nera, gli esercizi del Gatto, gli spostamenti della Pesca…) e soprattutto metafore, vere o apparenti (penso, ad esempio, al volo irregolare dei piccioni ubriachi e alla pallina su cui soffiano il protagonista e il Gatto nella prima parte, a quella strana corte dei miracoli che lo accompagna nella seconda e al biografo che invecchia a velocità impressionante nella terza), che rappresentano fessure nelle quali il nostro occhio e la nostra fantasia possono infilarsi per trasformare il mondo di Moresco nel nostro mondo, il suo libro nel nostro libro: porte che aprono infinite possibilità per immaginare altre storie.
Il mondo de Gli esordi è lo specchio del nostro mondo, ma uno specchio deformante, che restituisce  all’occhio una realtà alterata. Magari non in maniera evidente fin da subito, ma solo in qualche particolare (il viso diviso in due del padre priore, Ziò che spara all’albero…), come se Moresco ci invitasse a rallentare e a soffermarci su quello che di solito diamo per scontato.

Per tutta la prima parte del romanzo il protagonista non dice parola e nella seconda si aggira per le pagine del libro come un sonnambulo incapace di mettere a fuoco quello che accade intorno a lui, eppure nessuno degli altri personaggi sembra farci caso. Un protagonista senza nome che vive in uno stato di perenne spaesamento: fatica a capire in quale città si trova, in che giorno, in che stagione. Va avanti senza punti di riferimento, galleggia nella realtà senza decidere nulla, eseguendo gli ordini che altri gli impartiscono, facendo quello che gli viene chiesto. Lui osserva, ascolta, aiuta, gli altri parlano e non sanno più guardare. Il mondo disegnato da Moresco è un mondo nel quale le dinamiche dell’Io sembrano aver definitivamente sbaragliato quelle del Noi e dove dominano l’indifferenza e l’anaffettività. Un mondo che probabilmente ci è abbastanza familiare.

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