Una giuliva bischeraggine animava le
facce di tutti; […] E tutti speravano, speravano, giulivi. Ed erano pieni di
fiducia. Oppure, autorevoli, tacevano. […] incartonati nell’arnese d’amido
dello smoking quasi nel cerotto e nel turgore supremo della certezza e della
realtà biologica.
[…]
venivano giù come un olio al loro imbandierato varo, varati finalmente nel
sciocchezzaio con tutti gli onori e i carismi: carene insevate da stupidità.
Più insulsi erano, e più felice e liscio gli andava sottoculo lo scivolo, […] Tutti
avevano la loro vita, la loro donna: e si erano lasciati varare: ed erano in
condizione di essere presi, sul serio. […] Ognuno credeva, realmente, di essere
una cosa seria. […] Tutti erano presi sul serio: e si avevano in grande
considerazione gli uni gli altri.
Gli
attavolati si sentivano sodali nella eletta situazione delle poppe, nella
usucapzione d’un molleggio adeguato all’importanza del loro deretano, nella
dignità del comando. Gli uni si compiacevano della presenza degli altri, desiderata
platea. E a nessuno veniva fatto di pensare, sogguardando il vicino, «quanto è
fesso!».
Tutti,
tutti: e più che mai quei signori attavolati. Tutti erano consideratissimi! A
nessuno, mai, era mai venuto in mente di sospettare che potessero anche essere
dei bischeri, putacaso, dei bambini di tre anni. Nemmeno essi stessi, che pure
conoscevano a fondo tutto quanto li riguardava, le proprie unghie incarnite, e
le verruche, i nèi, i calli, un per uno, le varici, i foruncoli, i baffi solitari:
neppure essi, no, no, avrebbero fatto di se medesimi un simile giudizio. E
quella era la vita.
[…]
Così rimanevano. A guardare. Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse a
rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione
dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini
ossibuchivori.
[…]
Nessuno conobbe il lento pallore della negazione. […] Le
figurazioni non valide erano da negare e da respingere, come specie falsa di
denaro. […] Cogliere il bacio bugiardo della Parvenza, coricarsi con lei sullo
strame, respirare il suo fiato, bevere giù dentro l’anima il suo rutto e il suo
lezzo di meretrice. O invece attuffarla nella rancura e nello spregio come in
una pozza di scrementi, negare, negare: chi sia Signore e Principe nel giardino
della propria anima. Chiuse torri si levano contro il vento. Ma l’andare nella
rancura è sterile passo, negare vane immagini, le più volte, significa negare
se medesimo. Rivendicare la facoltà santa del giudizio, a certi momenti, è
lacerare la possibilità: come si lacera un foglio inturpato leggendovi
scrittura di bugìe.
[…]
Lo hidalgo era nella sala, […] La sua secreta perplessità e l’orgoglio secreto
affioravano dentro la trama degli atti in una negazione di parvenze non valide.
Le figurazioni non valide erano da negare e da respingere, come specie falsa di
denaro. […] Lo hidalgo, forse, era a negare se stesso: rivendicando a sé le
ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla
possibilità. Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore. Lo scherno solo dei
disegni e delle parvenze era salvo, quasi maschera tragica sulla metope del
teatro.
[…]
Pur incombendoci di dare il più severo giudizio circa l’aberrante violenza de
aquel perdido, tenemos todavía que abrir el ánimo al residuo de una duda; y
este sobrante caritativo es en el concepto y quizás en la inquietud de que un
mal tan profundo tuviese en alguna parte su origen, aún recóndito y obscuro:
che vi fosse una ragione o una causa, o più ragioni o più cause, forse, ignote
agli umani, irreparabili, perché l’animo dello hidalgo andasse così privo di
ogni gioia.
[Carlo Emilio Gadda: "La cognizione del dolore"]
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