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Leggere il proprio
tempo è impresa difficile, difficilissima. Molti si confrontano con questa
montagna, pochi, pochissimi ne vengono a capo. Con il paradosso che spesso a
riscuotere più successo è chi fallisce e non chi riesce nell’impresa, come se
vedere nel profondo ci facesse paura, come se in realtà non volessimo capire
davvero quello che ci succede. E così succede che ci si affidi alle voci di
comodo e che si accomodi sotto l’ombrello protettivo del senso comune, del
pensiero condiviso, privilegiando di volta in volta le voci consolatorie o
quelle apocalittiche, sempre seguendo la corrente.
Broch è stato uno di
quelli in grado di leggere il suo tempo e I
sonnambuli è un libro enorme, uno di quelli che sta dalle parti dell’Uomo senza qualità, tanto per capirci. Perché
I sonnambuli non è solo un’opera che spiega
la realtà mitteleuropea a cavallo del Novecento, ma parte dal particolare per
giungere ad una riflessione sull’uomo tout court, con riflessioni che superano la prova degli
anni tanto da poter essere considerate valide anche per i tempi che ci troviamo
ad abitare.
Romanzo realistico o
romanzo psicologico, si è scritto; romanzo-mondo, dico io. Opera che contiene al
suo interno talmente tante idee che necessiterebbe di letture ripetute e più
attente di quelle che io sono riuscito a concedergli: tre volumi che narrano
accadimenti che si svolgono rispettivamente nel 1888, nel 1903 e nel 1918, a
distanza di quindici anni uno dall’altro, tre protagonisti, Pasenow, Esch ed
Huguenau, che incarnano in ognuna delle tre parti lo spirito del tempo.
Pasenow è l’uomo legato
alla disciplina, il soldato che affida alla divisa il ruolo di “indicare e
stabilire l’ordine del mondo ed eliminare l’aspetto incerto e fluido della vita”.
Avrebbe bisogno di una guida, di qualcuno in grado di dirgli cosa fare e di
aiutarlo ad orientarsi nelle cose del mondo, non trovandolo decide di
sacrificare la libertà e di affidarsi alle regole della vita militare, limitandosi
a galleggiare nella quotidianità. Non capisce la realtà, è attratto da chi è
diverso da lui, dal nuovo, ma non sa muoversi su questo terreno per cui si
ingegna a costruire collegamenti improbabili che gli consentano di spiegare
quello che succede, perennemente sospeso tra ciò che vuole e ciò che crede gli
altri si aspettino da lui.
Se Pasenow è il
vecchio, lo spirito di un’epoca destinata a scomparire, l’ultimo rigurgito di
un secolo superato che cerca di arroccarsi nella difesa ottusa di un ordine fine
a se stesso, rifiutandosi di confrontarsi con il cambiamento, Esch invece
incarna la forza per certi versi “dionisiaca” delle nuove idee. Dibattuto tra
sensi di colpa e ricerca del piacere inteso come via per trascendere l’angoscia
che lo domina, riscattare la solitudine dell’animo umano (unica strada verso la
salvezza), sente il dovere morale di fare qualcosa, di espiare in qualche modo
e portare giustizia (“sacrificarsi per l’avvenire ed espiare il passato; un
galantuomo si sacrifica, se no non ci sarà mai un ordine!”). Un Esch
dostoevskijano, direi, che si trova a confrontarsi con idee nuove, a percorrere
con passo insicuro quelle stesse strade che Pasenow rifiutava, terreni impervi che
confinano con l’anarchia.
Per quanto diversi,
Pasenow ed Esch hanno un tratto che li accomuna: entrambi si sforzano di
leggere il loro tempo ed entrambi sembrano farlo filtrando la realtà attraverso
un paio di occhiali sbagliati. Faticano ad interpretare i rapporti tra i fatti e
quelli tra le persone, ci costruiscono sopra teorie strampalate e poi agiscono
a base a queste costruzioni fallaci.
Il terzo volume de I sonnambuli rappresenta la summa dell’intera
opera, un cambio di marcia rispetto ai due volumi precedenti espresso anche dal
punto di vista stilistico: la narrazione è contaminata da inserimenti di saggistica,
testi poetici, teatrali, riflessioni filosofiche, dialoghi, critica, storia
dell’arte, articoli di giornale, lettere… che rendono farraginosa la lettura ma
contemporaneamente costituiscono le tessere necessarie alla composizione del
puzzle che Broch ha in mente. Huguenau, il protagonista di questa terza parte,
è il simbolo dell’epoca, un opportunista chiuso in se stesso, privo di valori,
una personalità sterile figlia di una logica che non porta a nulla ma guarda solo
al proprio interesse. Huguenau incarna alla perfezione la crisi di valori che
Broch vuole descrivere, una crisi figlia dell’indifferenza, di una
frammentazione della realtà in mille rivoli, sfere di interesse che finiscono
per svilupparsi autonomamente una dall’altra e per radicalizzarsi fino a schiacciare
l’uomo facendolo diventare ingranaggio. Sono sfere che, come detto, seguono
logiche personali, perseguono fini diversi, vanno in direzioni diverse e
tendono a conclusioni diverse: il risultato è uno smembramento della realtà con
l’individuo che diventa “incapace di afferrare un qualunque valore al di fuori
della sua strettissima sfera individuale”, perché “l’uomo sciolto da ogni
gruppo etico, è diventato unicamente portatore del valore individuale, l’uomo metafisicamente
“espulso”, espulso perché il gruppo si è dissolto e polverizzato in individui,
è affrancato dal valore e dallo stile e a determinarlo non resta ormai che l’irrazionale”.
Razionale ed irrazionale sono le parti che Broch identifica come necessarie e
complementari alla costituzione di un unicum
inteso come entità superiore posta al di fuori delle nostre competenze e
verso la quale dovrebbe tendere l’uomo
per arrivare alla salvezza.
Semplicemente una
delle letture più importanti di sempre.
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