sabato 4 marzo 2017

Marilynne Robinson – Le cure domestiche




Quasi un ossimoro

Una storia di donne e di legami familiari, raccontata in prima persona da Ruth, una delle due sorelle protagoniste del romanzo. Una prosa attenta alla scelta delle parole, precisa, ricca di descrizioni minuziose e di descrizioni che la fanno sembrare quasi “anti-moderna”. Una prosa carica di simboli: il buio e la luce e poi l’acqua, su tutti.
Sono i pensieri, più che i dialoghi, a caratterizzare un racconto nel quale il tono lirico usato dalla Robinson per narrare l’anaffettività dei personaggi, stride come gesso che graffia la lavagna.
Le cose succedono, e pur nella loro drammaticità vivono solo in quell’istante, perché un attimo dopo che sono passate sembra che una coltre di polvere le ricopra:
“Questa quiete perfetta si era stabilita in casa loro dopo la morte del padre. Quell’evento aveva sconvolto la sostanza stessa delle loro vite. Tempo, aria e luce portarono ondate e ondate di trauma, finché tutto il trauma non si esaurí, e tempo e spazio e luce ridivennero immobili e nulla parve piú tremare, e nulla parve piú piegarsi. Il disastro era svanito nel nulla, come il treno stesso, e se la calma che lo seguí non fu piú grande della calma che l’aveva preceduto, l’impressione fu comunque quella.”
È come se l’inevitabilità della vita rendesse superflua qualsiasi riflessione, inutile qualsiasi abbandono emotivo:
 “Nel giro di un mese tutta la vita in letargo e la decomposizione interrotta sarebbero ricominciate daccapo. Nel giro di un mese non si sarebbe sentita in lutto”.
Questo il contesto nel quale Ruth e Lucille crescono. Tra adulti che si sfilano più o meno volontariamente dalle loro responsabilità (“tutta la nostra famiglia amava mantenere le distanze. Questa era la definizione piú imparziale delle nostre migliori qualità, e la descrizione piú gentile dei nostri peggiori difetti”), o che quando sono presenti, come Sylvie, non sono in grado di “fare casa” in senso classico perché “i suoi pensieri erano sempre altrove”. Sarà proprio Sylvie a mettere in crisi il rapporto simbiotico che lega le due sorelle, spingendole su due strada diverse: Lucille deciderà di uscire dall’isolamento facendo un passo verso gli altri, verso la luce e l’omologazione, verso quella sicurezza che la vita degli altri sembrano offrirle, Ruth invece seguirà Sylvie lungo la strada buia e stretta di chi vive senza certezze ed è consapevole della propria fragilità e che la teme ma non abbastanza da rinunciarvi (“Credo di non sapere cosa penso –. Questa confessione mi imbarazzò. Per me allora era fonte sia di terrore sia di conforto il fatto di sapere che spesso sembravo invisibile o, per meglio dire, sembravo esistere in modo minimo e incompleto. Mi sembrava di non avere impatto sul mondo, e di avere in cambio il privilegio di poterlo osservare a sua insaputa. Ma la mia allusione a questa sensazione di spettrale inconsistenza suonò strana alle mie stesse orecchie e il sudore incominciò a coprirmi tutto il corpo, dichiarandomi immediatamente colpevole di palese corporeità”).
Come detto, la cifra di questo romanzo mi sembra proprio lo iato tra la prosa piana de  Le cure domestiche e i concetti che la Robinson ci propone: ad un concetto di “fare casa” classico (quello inseguito da Lucille), che rincorre affannosamente il miglioramento e la stabilità sacrificando tutto quello che sembra non servire e soprattutto cancellando un passato non in linea con le proprie aspettative, Ruth (/Robinson) contrappone  un punto di vista decisamente anticonformista che rifiuta il modello della sorella (“mi sembrò che Lucille si sarebbe data da fare per sempre, pungolando, spingendo, blandendo, come se potesse supplire alla volontà che a me mancava, per costringermi dentro una forma decente e trascinarmi oltre le frontiere che immettevano in quell’altro mondo, dove mi pareva che non avrei mai potuto desiderare di entrare. Poiché mi sembrava che niente di ciò che avevo perso o che potevo perdere potesse essere ritrovato là, o, per dirla in altro modo, mi sembrava che qualcosa di quello che avevo perso potesse essere trovato nella casa di Sylvie”) e sceglie di non rinunciare ai ricordi, un modello di vita che mette al centro gli individui e non le cose (emblematico, a questo proposito, l’incendio della casa prima di abbandonare la città). Andare contro il comune sentire non è una scelta semplice, è un procedere rischioso, sempre  in bilico sopra ad un filo, con il rischio di cadere da un momento all’altro, concetto che la Robinson rende meravigliosamente con la metafora dell’acqua, quella del fiume in cui era precipitato il treno del nonno prima e nel quale si era gettata la madre delle due sorelle dopo, fiume che Sylvie e Ruth sfideranno passando sulla ferrovia che lo sovrasta, correndo il rischio di cadere a loro volta per poter essere libere di “fare casa” da un’altra parte.

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