Fisiopatologia dell'attesa.
Una scrittura densa, materica, con frasi lunghe e
ricche di subordinate che cercano di riprodurre su carta la lingua parlata,
rinunciando così a semplificare i concetti ma esponendoli per come vengono
fuori, anche in maniera farraginosa. Una lettura a tratti faticosa, con la
quale si fatica ad entrare in sintonia, ma che ripaga dell’attenzione che
richiede perché a forza di farsi strada nei meandri della narrazione di Krasznahorkai
si finisce per ritrovarsi nel bel mezzo della storia. Una storia che è
attraente e al tempo stesso straniante, che racconta ma non spiega e complica
quando finge di chiarire.
Una storia raccontata per immagini, per tessere
che poste una accanto all’altra vanno a costituire il mosaico di Satantango, un mosaico che sembra privo
di un centro, nel senso che non c’è un protagonista assoluto ma una serie di
personaggi (tutti molto bel tratteggiati e sviluppati nei loro caratteri)
ognuno dei quali è protagonista della “sua” storia, della storia che vive e racconta
dal suo punto di vista. Cambiamenti di prospettiva (lo stesso avvenimento visto
attraverso occhi diversi) e alternanza dei piani temporali (per tacere dei
simboli e delle fughe in avanti, in un mondo onirico tra fantasia e realtà),
caratterizzano un romanzo dominato da un’atmosfera cupa, fatta di pioggia,
oscurità e fango.
Fango come metafora che tutto sommerge e rende
uguale, fango che rallenta i movimenti e che costringe all’immobilità. Quell’immobilità
nella quale si trovano tanto bene i protagonisti della storia, un gruppo di
disperati che attende l’attesa di Ieremiás, il deus ex machina che promette di
portarli fuori dalle secche nelle quali la loro vita è precipitata. Futaki,
Halics, Kerkes la signora e il signor Schmidt e gli altri sono morti che
camminano, ciechi che vagano nel buio come i protagonisti del romanzo saramaghiano,
uomini e donne che si sono auto-condannati all’attesa: aspettano per indolenza,
per incapacità, perché ci hanno provato ed hanno fallito, perché non hanno mai
trovato la forza per provarci… Aspettano perché non sanno far altro e intanto
che aspettano cercano di dimenticare la realtà con l’alcool e con la danza,
quel tango satanico che è l’ultimo sberleffo, l’unico sistema che conoscono per
dimostrare a se stessi di essere vivi, almeno fino a quando non sarà passata la
sbornia e tutto tornerà come prima.
Ieremiás è il Godot tanto atteso, che a differenza
dell’eroe beckettiano però ad un certo punto si materializza, anche se con le sorprendenti
fattezze del Don Chisciotte cervantiano con tanto di Sancho Panza al seguito
(il fidato Petrina). Solo le fattezze però, ché Satantango non è un romanzo di eroi o di lieto fine e Ieremiás si
rivelerà essere un truffatore di basso cabotaggio, un piccolo uomo che vive di
espedienti come tutti gli altri. Non è più tempo di messia, sembra dirci Krasznahorkai,
eppure quando il cielo è grigio e i tempi sono confusi gli uomini non possono
fare a meno di cercarli, e di mettere nelle mani di qualcuno le loro vite. Poco
importa chi sia quel qualcuno, l’importante è che sappia accendere ancora una
speranza, che è l’unica (l’ultima) cosa a tenere in vita persone che da tempo
hanno smesso di credere in qualcosa, e pazienza se poi speranza fa rima con
illusione.
Satantango è un gran
romanzo, ricco di spunti e con tanti piani di lettura, simboli (le campane, ad
esempio), sprazzi di fantastico (la bambina morta – una delle figure più
riuscite e sorprendenti del libro - che fluttua in aria come un personaggio
chagalliano), zone oscure, pugni nello stomaco (la sadica fascinazione dei
bambini per la violenza) e poi un finale che sembra tornare all’inizio, quasi a
suggerire che è il personaggio del dottore il vero autore della storia che sta
raccontando.
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