sabato 25 febbraio 2017

László Krasznahorkai - Satantango



Fisiopatologia dell'attesa.

Una scrittura densa, materica, con frasi lunghe e ricche di subordinate che cercano di riprodurre su carta la lingua parlata, rinunciando così a semplificare i concetti ma esponendoli per come vengono fuori, anche in maniera farraginosa. Una lettura a tratti faticosa, con la quale si fatica ad entrare in sintonia, ma che ripaga dell’attenzione che richiede perché a forza di farsi strada nei meandri della narrazione di Krasznahorkai si finisce per ritrovarsi nel bel mezzo della storia. Una storia che è attraente e al tempo stesso straniante, che racconta ma non spiega e complica quando finge di chiarire.
Una storia raccontata per immagini, per tessere che poste una accanto all’altra vanno a costituire il mosaico di Satantango, un mosaico che sembra privo di un centro, nel senso che non c’è un protagonista assoluto ma una serie di personaggi (tutti molto bel tratteggiati e sviluppati nei loro caratteri) ognuno dei quali è protagonista della “sua” storia, della storia che vive e racconta dal suo punto di vista. Cambiamenti di prospettiva (lo stesso avvenimento visto attraverso occhi diversi) e alternanza dei piani temporali (per tacere dei simboli e delle fughe in avanti, in un mondo onirico tra fantasia e realtà), caratterizzano un romanzo dominato da un’atmosfera cupa, fatta di pioggia, oscurità e fango.
Fango come metafora che tutto sommerge e rende uguale, fango che rallenta i movimenti e che costringe all’immobilità. Quell’immobilità nella quale si trovano tanto bene i protagonisti della storia, un gruppo di disperati che attende l’attesa di Ieremiás, il deus ex machina che promette di portarli fuori dalle secche nelle quali la loro vita è precipitata. Futaki, Halics, Kerkes la signora e il signor Schmidt e gli altri sono morti che camminano, ciechi che vagano nel buio come i protagonisti del romanzo saramaghiano, uomini e donne che si sono auto-condannati all’attesa: aspettano per indolenza, per incapacità, perché ci hanno provato ed hanno fallito, perché non hanno mai trovato la forza per provarci… Aspettano perché non sanno far altro e intanto che aspettano cercano di dimenticare la realtà con l’alcool e con la danza, quel tango satanico che è l’ultimo sberleffo, l’unico sistema che conoscono per dimostrare a se stessi di essere vivi, almeno fino a quando non sarà passata la sbornia e tutto tornerà come prima.
Ieremiás è il Godot tanto atteso, che a differenza dell’eroe beckettiano però ad un certo punto si materializza, anche se con le sorprendenti fattezze del Don Chisciotte cervantiano con tanto di Sancho Panza al seguito (il fidato Petrina). Solo le fattezze però, ché Satantango non è un romanzo di eroi o di lieto fine e Ieremiás si rivelerà essere un truffatore di basso cabotaggio, un piccolo uomo che vive di espedienti come tutti gli altri. Non è più tempo di messia, sembra dirci Krasznahorkai, eppure quando il cielo è grigio e i tempi sono confusi gli uomini non possono fare a meno di cercarli, e di mettere nelle mani di qualcuno le loro vite. Poco importa chi sia quel qualcuno, l’importante è che sappia accendere ancora una speranza, che è l’unica (l’ultima) cosa a tenere in vita persone che da tempo hanno smesso di credere in qualcosa, e pazienza se poi speranza fa rima con illusione.

Satantango è un gran romanzo, ricco di spunti e con tanti piani di lettura, simboli (le campane, ad esempio), sprazzi di fantastico (la bambina morta – una delle figure più riuscite e sorprendenti del libro - che fluttua in aria come un personaggio chagalliano), zone oscure, pugni nello stomaco (la sadica fascinazione dei bambini per la violenza) e poi un finale che sembra tornare all’inizio, quasi a suggerire che è il personaggio del dottore il vero autore della storia che sta raccontando.

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