Sul canone
“gentiano”
Ci
sono scrittori dei quali, una volta terminato un libro, mi viene subito voglia
di leggerne un altro e poi un altro ancora. Questo non vale per Faulkner, almeno
non nel mio caso. Perché non trovo consolatori e neppure “piacevoli” i suoi
libri, piuttosto impegnativi e amari e spesso ho la necessità di intervallarne
la lettura con qualcosa di differente.
Assalonne, Assalonne! non fa eccezione
alla regola, anzi può essere considerato paradigmatico in questo senso.
Faulkner è scrittore che richiede al lettore attenzione, molta attenzione, e lo
fa con un incipit che mette subito le cose in chiaro e sembra più respingere
che invogliare a proseguire la lettura:
“Da’ un po’ dopo
le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio
di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfield chiamava ancora
l’ufficio perché così l’aveva chiamato suo padre—una buia stanza calda
senz’aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati
perché quand’era ragazza lei qualcuno era convinto che la luce e l’aria mossa
portassero alcove e che al buio facesse comunque più fresco, una stanza che
(come il sole andava battendo sempre più piano su quel lato della casa) si
zebrava di lame gialle dense di pulviscolo che Quentin pensava formato di
minuscole scaglie della stessa vecchia vernice rinsecchita e morta in via di
scrostarsi dalle persiane e sospinta all’interno come dalla forza del vento.
C’era una pianta di glicini che fioriva per la seconda volta quell’estate su
una graticciata di legno davanti a una finestra, da cui ogni tanto entravano i
passeri a folate intermittenti, levando un secco suono vivido e polveroso prima
di andarsene: e dirimpetto a Quentin, Miss Coldfield nell’eterno lutto che
portava ormai da quarantatré anni, se per una sorella, il padre o un marito
mancato nessuno sapeva, seduta eretta nella dritta seggiola dura tanto alta per
lei che le gambe le pendevano ritte e rigide come se avesse stinchi e caviglie
di ferro, staccate dal pavimento con quell’aria di rabbia impotente e statica
che hanno i piedi dei bambini, e parlava con quella sua cupa voce scarna e
stupefatta fin quando si finiva per non poter più ascoltare e il senso stesso
dell’udito si confondeva e il sepolto oggetto della sua frustrazione impotente
eppure indomabile ricompariva, quasi evocato da quell’offeso ricapitolare,
quieto disattento e innocuo, dalla paziente, sognante polvere vittoriosa.”
La
prima cosa che colpisce è che un solo aggettivo per descrivere il pomeriggio non
è sufficiente a descriverne l’atmosfera, tanto da rendere necessario impiegarne
ben cinque. La seconda è che la narrazione sembra scorrere lenta, lentissima,
ma nelle profondità si agita una sintassi “demoniaca”, che all’interno di frasi
lunghe o lunghissime distribuisce virgole e parentesi a profusione, creando subordinate
e ipotassi che appesantiscono la prosa rendendo farraginoso un racconto che non
sembra arrivare mai al punto. Ci si sforza di andare avanti, ma si è costretti
a tornare indietro, a rileggere, a cercare il filo che permetta di sbrogliare
la matassa. Impresa inutile perché non c’è un filo, ma tanti fili. Faulkner non
è tipo da scorciatoie, da concessioni al lettore. E ne sa una più del
diavolo: da un momento all’altro cambia
la voce narrante (senza avvertirci, si capisce), la sequenza temporale si
sposta avanti e indietro nel tempo e la lettura da farraginosa diventa irritante
così che prima o poi l’attenzione si smarrisce nelle pieghe del discorso. Con
Faulkner questo non te lo puoi permettere e allora devi tornare indietro per
cercare un punto di ripristino (come si dice oggi…) da cui ripartire.
E
allora chi te lo fa fare? Perché devi andare avanti se la lettura è così
faticosa? Difficile dare una spiegazione. Forse vai avanti proprio per questo,
per il piacere della sfida, per vedere dove l’autore ti vuole portare. Oppure,
più semplicemente, vai avanti perché sai che questo libro è un capolavoro e la
particolarità dello stile è uno degli elementi su cui si regge quell’enorme
cattedrale che è Assalonne, Assalonne! ,
un libro enorme che in fin dei conti è solo il tentativo di non dimenticare, di
tenere viva la storia di Thomas Sutpen (“Noi
abbiamo vecchi racconti tramandati di bocca in bocca; riesumiamo da vecchi
bauli e casse e cassetti lettere senza indirizzo o firma, in cui uomini e donne
che un giorno vissero e respirarono sono adesso mere iniziali o soprannomi
coniati da qualche affetto ora incomprensibile che a noi suonano come sanscrito
o Chock-taw; noi vediamo confusamente delle persone, le persone nel cui sangue
e seme vivente noi stessi giacevamo in un sonno d'attesa, in quella umbratile
attenuazione del tempo, assurte ora a proporzioni eroiche, tornate a compiere i
loro atti di semplice passione e semplice violenza, impervie al tempo e
inesplicabili. Sì, Judith, Bon, Henry, Sutpen: tutti quanti. Loro ci sono,
eppure manca qualcosa; sono come una formula chimica riesumata insieme alle
lettere da quel cassone dimenticato, accuratamente, la carta vecchia e sbiadita
che va in pezzi, la scrittura sbiadita, quasi indecifrabile, eppure piena di
significato, familiare quanto a forma e senso, nome e presenza di forze
volatili, e senzienti; tu le ricomponi nelle proporzioni volute, ma nulla
accade; tu rileggi, pedante e attento, riflettendo bene, accertandoti di non
aver dimenticato nulla, di non aver commesso errori di calcolo; tu le ricomponi
ancora e ancora e nulla accade: semplicemente le parole, i simboli, le forme in
se stesse, umbratili inscrutabili e serene, contro quel turgido sfondo di un
orribile e sanguinoso groviglio di affari umani.”).
Già,
la storia di Thomas Sutpen, ma non solo, perché Assalonne, Assalonne! è una saga, un grande romanzo corale, nel
quale le voci degli altri personaggi non si limitano a fare da controcanto ma
esprimono altrettanti caratteri e aspetti psicologici. Un libro nel quale
uomini e donne vivono e parlano in stretta connessione perché:
“Tu vieni al mondo e tenti e non sai perché solo
continui a tentare e vieni al mondo insieme a un mucchio di altre persone,
tutta aggrovigliata a loro, come loro tentando, dovendo muovere braccia e gambe
con cordicelle, solo che le stesse cordicelle sono legate a tutte le altre
braccia e gambe e gli altri tentano tutti quanti e neanche loro sanno perché,
tranne che le cordicelle si impicciano tutte a vicenda come sarebbe a dire
cinque o sei persone tutte intente a cercar di fare una stuoia sullo stesso
telaio solo che ciascuna vuol tessere la stuoia secondo il proprio disegno; e
non può avere importanza, lo sapete, sennò Coloro i quali impiantarono il
telaio avrebbero predisposto le cose un po' meglio, eppure deve avere
importanza purché tu seguiti a tentare o a dover continuare a tentare e poi
tutt'a un tratto è finita e tutto quel che ti rimane è un blocco di pietra con
qualche scalfittura sopra purché ci sia stato qualcuno a ricordarsi di far
scalfire e collocare il marmo, o che ne abbia avuto il tempo, e ci piove sopra
e il sole ci splende e dopo un po' non si ricordano neppure il nome e quello
che le scalfitture tentavano di dire, e non ha importanza. E così forse se tu
potessi andare da qualcuno, quanto più estraneo tanto meglio, e dargli qualcosa
– un pezzo di carta – qualcosa, qualunque cosa, non certo perché abbia un
significato in sé e gli altri non debbono neppure leggerlo o tenerlo, nemmeno
preoccuparsi di buttarlo via o distruggerlo, almeno sarebbe qualcosa giusto
perché sarebbe accaduto, sarebbe ricordato quand'anche solo passando da una
mano all'altra, da una mente all'altra, e sarebbe almeno una scalfittura,
qualcosa, qualcosa da poter lasciare un segno su qualcosa che fu una volta per
il motivo che può morire un giorno, mentre il blocco di pietra non può essere è
perché non può mai diventare fu perché non può mai morire o perire…"
Nella
mia idea di canone letterario, Faulkner occupa un posto di rilievo. Lo colloco
su una retta ideale che collega Dostoevskij a Foster Wallace. Al primo lo lega la
scelta dei temi, perché solo personalità fornite di mezzi potenti possono
permettersi di mettere al centro della loro narrazione la Vita, la Morte e
l’Uomo e soprattutto scavare così in profondità in ognuno di questi ambiti e poi
c’è la polifonia, la capacità di dar voce a tutti i personaggi, Foster Wallace invece,
è un collegamento che mi è venuto in mente proprio per lo stile, per la scelta
coraggiosa e anacronistica di entrambi di rifiutare la via breve di una
narrazione semplice e logica, per inerpicarsi lungo sentieri rischiosi ma che sono
la maniera più vera di restituire al lettore tutta la complessità del sentire e
ragionare dell’uomo.
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