domenica 16 dicembre 2012

un giorno e non finì la frase. Capitolo secondo.


Capitolo secondo

Se una farfalla in Brasile un giorno


Si parte. Se il fischio che si è levato dall’Highland Monarch poco fa è stato solo un colpetto di avvertimento, un segnale discreto buttato là tanto per dire, Cari signori, ci dispiace distogliervi dalle vostre occupazioni, ma ci corre l’obbligo di avvisarvi che stiamo per prendere il largo, compensando con il pregio della brevità il fastidio arrecato ai timpani, ora la situazione è diversa e la sirena può permettersi di essere finalmente se stessa e fare la voce grossa senza tentennamenti. E’ il momento degli addii, senza possibilità di ripensamento, chi c’è c’è e chi non c’è s’arrangi, come dicono i bambini, la nave va, ed un sibilo vigoroso è la colonna sonora di tanta partenza. Un fischio lungo e sgradevole, un concerto monocorde che sovrasta per intensità ogni altro suono e si dilata a raggiera in cerchi sempre più ampi, fino a penetrare nella testa delle persone in maniera così decisa da spiazzare anche i pensieri, e forse è un effetto voluto, che chi ha il compito di organizzare le partenze sa bene che quasi sempre si tratterebbe di pensieri tristi.
Come valorosi soldati impegnati nella strenua difesa del loro fortino assediato dai nemici, i viaggiatori hanno già occupato le balaustre lungo il perimetro della nave e dalle loro posizioni scrutano con attenzione il molo di Alçantara alla ricerca di parenti ed amici. I più veloci hanno fatto in tempo a posare le valigie nelle cabine a loro assegnate ed ora si muovono con disinvoltura cercando la posizione migliore, i più accorti hanno preferito sopportare l’impaccio di trascinarsi appresso i bagagli ma sono riusciti ad occupare i posti di poppa, che sono i migliori, con l’esperienza di quelli cha sanno che a volte vale la pena di fare un piccolo sacrificio quando si sa che può essere seguito da un grande premio, e gli indecisi, i lenti, i ritardatari, insomma la maggioranza di quanti sono saliti sul piroscafo a Lisbona, sono costretti ad accontentarsi di una scomoda collocazione lungo i ponti laterali, una scelta obbligata, un ripiego, che da lì è difficile vedere ed essere visti dalla gente che assiepa la banchina. Chi primo arriva meglio alloggia, questa è la regola non scritta che vale da sempre in circostanze come questa, e nessuno stia qui a parlare di cavalleria, di far spazio alle signore od ai bambini, che su questa nave di anime belle intenzionate a cedere un posto conquistato a fatica non se ne vede l’ombra.
Si parte, e il primo impulso è di precipitarsi in sala macchine per costringere l’addetto a schiacciare quel maledetto pulsante e far tacere per sempre la nota malefica. Sembra che ci sia un compiacimento da parte del transatlantico nel reiterare all’infinito il suo fischio, quasi a cancellare ogni dubbio sull’importanza del momento. La sirena dell’Highland Monarch come equivalente sonoro di una riga nera tirata su un foglio bianco a dividerlo in due con gesto tanto deciso quanto significativo. Attenzione signori, il suono che sentite è lo spartiacque fra il prima che avete vissuto ed il dopo che vi aspetta, quello che è stato è stato, si parte e da ora in poi l’unica legge a contare sarà quella del piroscafo. E’ un rumore intollerabile anche per i timpani più allenati, un rumore che per assurdo potrebbe non finire mai e coprire per sempre ogni altra voce, cancellando ogni possibilità di relazione, ogni pensiero. Considerazioni bislacche, figlie della collera, che nascono con la notte e si dissolvono all’alba, che poi ci si accorge che non è così, che non è mai morto nessuno per colpa di un rumore e con il passare del tempo ci si abitua a tutto. Già, a tutto. In fondo se l’uomo è arrivato fin dove è arrivato non lo deve certo al fatto di essere una macchina perfetta, ma alle sue capacità di adattamento. La perfezione non è poi quella gran cosa che raccontano, è anzi un limite, che incatena ed impedisce di crescere ulteriormente, la duttilità è il segreto, l’attitudine a cambiare con il mutare delle situazioni. E’ sempre stato così, anche in natura e la storia dell’evoluzione è lì davanti testimoniarlo. L’animale che non riusciva a stare dietro alle situazioni climatiche ed ambientali era destinato a soccombere e ad estinguersi, quello che ci riusciva poteva sopravvivere ed andare avanti, almeno sino al mutamento successivo. Certo, se spostiamo il discorso dalla natura al campo sociale le cose cambiano, e non poco, che quando un animale per salvarsi cambia pelle lo consideriamo in maniera positiva, ma se a cambiar pelle per riuscire a stare a galla nelle situazioni della vita è un uomo lo giudicheremo, ben che vada, un opportunista, ma si sa come vanno le cose, quello che è buono in un ambito non è detto che lo sia anche in un altro. E comunque questo è un altro discorso, che quello che vogliamo dire è che non sarà certo un suono, per quanto molesto, a cancellare il pensieri dalla testa delle persone imbarcate sull’Highland Monarch. E se fossimo di quelli abituati a vedere il bicchiere mezzo pieno, ed a trovare un lato positivo in ogni cosa, aggiungeremo qui che anche il baccano, in fondo, può risultare utile, non fosse altro per coprire i pianti e le grida della gente accalcata sul molo e sulla nave. Accontentiamoci del male minore, come si dice in questi casi, e giacché non è possibile sottrarci alla visione dei fiumi di lacrime che solcano i volti di chi va e di chi resta, ringraziamo la sirena che ci fa la grazia di non ascoltare il sonoro di questo spettacolo. 
L’aver trovato qualcosa di positivo in mezzo a questo girone dantesco ci ha messo di buon umore, così che la vista di un rubizzo signore di mezza età, con i radi capelli grigi spettinati dalla confusione, in equilibrio malfermo sopra una pila di valige, intento a scandagliare con sguardo serio il molo tenendo la mano destra sulla fronte come fosse una sentinella di una delle caravelle di Colombo pronta ad urlare Terra, Terra a squarciagola, ci suscita una risata che a stento riusciamo trattenere. Scusateci tanto ma quella mano a cosa serve, ci chiediamo, che in questo momento il porto è avvolto da una cappa di nebbia e di sole che possa offuscare la vista non c’è n’è la minima traccia. Non sembri irriguardoso nei confronti di questa gente, che sappiamo bene quanto struggente è il momento, ma la cerimonia della partenza oltre a celebrare il distacco, con tutto il carico di angoscia e disperazione che questo implica, porta con se anche più di un aspetto comico. E’ un po’ come quando si assiste ad un funerale nel quale, nonostante la gravità del momento, non riusciamo a sentirci coinvolti più di tanto, è fatale che l’attenzione dopo un po’ cali ed a volte si finisca per buttare l’occhio su episodi che per pudore ci limiteremo a definire imbarazzanti, ma che isolati dal contesto sembrerebbero francamente ridicoli. Alzi la mano chi non ha mai dovuto trattenere non dico una grassa risata ma almeno un mezzo sorriso ad un funerale, chi non ha dovuto mordersi la lingua o girarsi dall’altra parte o costringere i suoi pensieri a prendere un’altra strada per non tradire un improvviso moto di ilarità. E’ una cosa normale, non è cattiveria, né mancanza di rispetto, probabilmente è un modo come un altro per esorcizzare le paure, un tentativo di prendere le distanze e sconfiggere l’angoscia. Mettiamola così, a volte si ride per non piangere, e se qualcuno ha ancora dei dubbi gli ricorderemo qui che le barzellette sui funerali non le abbiamo di certo inventate noi. Insomma, sarà per colpa della distanza, che è notevole, sarà per via della nebbia, che avanza senza sosta, aggiungiamoci pure che anche l’emozione fa il suo nel giocare brutti scherzi, ma come non ridere del fatto che i saluti che si levano di qua e quelli che si levano di là non vadano proprio a buon fine ma anzi si incrocino in maniera bizzarra. Non è colpa nostra, ad esempio, se quella donna con il vestito a fiori che vediamo sul molo mentre con la mano sinistra si tiene il petto e con la destra agita un fazzoletto all’indirizzo della nave, credendo di riconoscere nella mano che si sbraccia da uno dei parapetti il proprio figlio, sta in realtà salutando un perfetto sconosciuto, mentre il figlio prediletto, con il cuore in gola per l’emozione, sta dirigendo i suoi baci in direzione di una signora che in comune con la madre ha solo la chioma candida. Ma in fondo cosa importa, che siamo tutti fratelli e sorelle, e l’emozione della partenza è la somma di tutto quello che ci portiamo dentro e non fa molta differenza a chi la comunichiamo. E si vede che quello di salutare la gente sbagliata è uno sport che riscuote un discreto successo sul molo di Alçantara, almeno a giudicare dal comportamento del padre della ragazza esile dal collo lungo e sottile, che sembra impegnato a rivolgere i suoi saluti in una direzione che è quella opposta a quella che occupa la figlia sulla nave, ed il fatto di essere in buona compagnia in questa sorta di inganno collettivo non è certo di alcun conforto. Lo vediamo sorridente, mentre agita la mano e poi si china verso una signora al suo fianco, le passa un braccio sulla spalla e con l’altro indica un punto imprecisato della fiancata dell’Highland Monarch, al che la signora abbozza un sorriso muove a sua volta la mano, seppur con meno vigore. E come noi lo vede anche la signorina in questione, e pur accorgendosi che il padre non sta salutando lei ma chissà chi, non si scompone più di tanto e soprattutto non si sottrae al rito collettivo dei saluti, ma adempie al compito che il momento richiede in maniera quasi distaccata, come se fosse un dovere da espletare prima possibile. Composta e misurata guarda in direzione del genitore increspando le labbra in un mezzo sorriso, un sorriso che è d’affetto, di comprensione e di ineluttabilità insieme, ed anche, ma sì, diciamolo, di delusione, poi alza appena la mano destra movendola leggermente in direzione del molo, una cosa di pochi secondi, che poi la abbassa per ricongiungerla alla sinistra che era rimasta abbandonata lungo il corpo. Come una mandria di animali selvatici che odora l’aria per annusare eventuali pericoli, la folla schiacciata contro la balaustra sembra aver riconosciuto la signorina come altro da sé, per questo se ne tiene prudentemente discosta, ma se gli animali usano l’olfatto per avvertire la presenza del più piccolo cambiamento nell’ambiente intorno a loro, la massa, che non è dotata della stessa abilità, è costretta ad accontentarsi di interpretare altri segnali, come il portamento austero, quasi rigido, della ragazza che incute deferenza in chi la osserva, ed il suo sguardo attento, fisso verso un punto lontano, che sembra isolarla dalla scena e renderla inavvicinabile come una principessa richiusa in una torre.
E giacché abbiamo iniziato questo racconto leggendo nella mente della gente, ci piacerà continuare ancora un po’ il nostro gioco. Abbandonato l’uomo con il monocolo al suo destino, sono i pensieri della ragazza quelli che ci interessano ora, pensieri che però ci dicono poco, che è difficile entrare nella vita di qualcuno in un punto scelto a caso e credere di poter capire tutto quello che è successo prima, ci limiteremo così a registrarne le riflessioni senza affannarci a cercare di capire ogni parola, sperando che quello che non ci è chiaro adesso lo possa diventare con il seguito della storia.
Se la mamma non fosse morta, pensa la signorina esile dal collo lungo e sottile, se questo cuore dispettoso non avesse improvvisamente iniziato a darmi dei problemi, se papà non avesse rovinato tutto innamorandosi di quella donna, se quel dottore venuto da Rio non fosse sparito nel nulla, se cinque mesi fa non fosse mancata anche la nonna, se i medici di Coimbra avessero badato ai fatti loro invece di dare consigli sciagurati a papà credendo di aiutarmi, se i miei zii brasiliani non fossero stati per una volta così generosi, se questa mano. Ferma, ferma. Tanti se, troppi. Un fiume di se che tracima in ogni direzione e che ci trova impreparati, che non immaginavamo certo di scoprire così tante cose quando abbiamo deciso di dare un’occhiata dentro alla testa di questa signorina. Chiediamo venia, ci dispiace aver curiosato con animo leggero nei pensieri di una ragazza così afflitta, una persona come questa merita tutta la nostra comprensione e non possiamo far altro che scusarci per la nostra indelicatezza e dirci dispiaciuti per le disgrazie di cui si lamenta, anche se al momento non siamo in grado di comprenderle tutte. Ma la storia della ragazza dal collo lungo e sottile è solo una fra le più di mille che potremo sentire su questa nave, che i suoi se sono i se dell’altra gente che si è appena imbarcata, magari non proprio i soliti, ma equivalenti. Se Hitler e Mussolini non avessero creato l’Asse, sta pensando ad esempio quel signore con barba e baffi, là in fondo. Se la guerra civile non avesse incendiato la Spagna, è il tarlo che abita nella testa di quella coppia con due bambini che sembrano gemelli e che sta piangendo mentre si abbraccia, se Salazar non avesse appoggiato i nazionalisti rischiando di trascinarci tutti in un conflitto che rischia di incendiare l’Europa e non solo, è la considerazione di quel giovane che abbiamo appena visto salutare una signora dai capelli bianchi come se fosse sua madre, ma che sua madre non è. Se, se, se. Se che ne incrociano altri come persone che si incontrano al centro di una piazza. Se i venti di crisi non mi avessero spinto ad emigrare per cercare fortuna in Argentina, pensa più d’uno dei ragazzi che viaggiano in terza classe, se il mio amore non mi avesse abbandonato ad un mese dalle nozze, è il pensiero di quel bel giovane con i baffi all’insù che ha scelto il nuovo continente per rifarsi una vita, ma è anche, strano a dirsi, lo stesso pensiero di quella sartina che si asciuga il sudore dalla fronte seduta sulle valige e che dire bella proprio non si può, la quale sta viaggiando verso il Sud America per un altro matrimonio, che i suoi genitori hanno combinato con un uomo che lei neppure conosce e che speriamo per lei possa essere più fortunato di quello che ha visto sfumare ai piedi dell’altare. Visto che ci troviamo ad assistere ad un’esposizione di se altrui, non ci sarà niente di male se ci permettiamo di aggiungerne qualcuno di tasca nostra. Se M. T. non avesse affidato il suo messaggio d’amore alle acque del Tamigi ma l’avesse consegnata direttamente a G. S., è la prima cosa che ci viene in mente, e subito dopo, se non avessimo letto Saramago, e se Saramago non avesse letto Pessoa, e se Pessoa. Ma ora basta, è meglio finirla qui, che a forza di andare a ritroso rischiamo di arrivare a Adamo ed Eva.
In fondo di se come questi è lastricata la strada della vita. Sono i figli di quei bivi che si presentarono un giorno sul nostro cammino, i nipotini di quegli aut aut davanti ai quali siamo stati chiamati un tempo a fare una scelta piuttosto che un’altra e che poi, a distanza di tempo, ci si ripropongono sotto forma di rimpianto, di rimorso, di dubbio postumo, in una parola sotto forma di se. E che senso può avere rammaricarsi per aver preso una strada piuttosto che un’altra tanto tempo prima, quando succede che spesso la nostra scelta non è stata fatta consapevolmente, che con molta onestà dovremo ammettere di esserci affidati in più di un’occasione alla sorte e con la stessa onestà sarà bene riconoscere anche che a volte non ci siamo neppure resi conto di essere ad un crocevia ed altre ancora abbiamo preferito lavarcene le mani, non operando alcuna scelta, demandando questo compito ad altri. Siamo fin patetici quando ci pavoneggiamo da decisionisti ed andiamo così fieri delle nostre capacità da sembrare più alti di una spanna. Ma chi crediamo di prendere in giro, che la sicurezza che esibiamo è solo un tentativo di darci coraggio, di farci guardare avanti e ricacciare i dubbi nelle profondità del nostro animo. Quando operiamo una scelta, non potremo mai essere sicuri che sia quella giusta, non c’è una formula matematica per sapere cosa è meglio in ogni circostanza, il tempo è un giudice che lavora con calma. C’è chi prende le sue decisioni seguendo l’istinto, chi segue il cuore, chi la ragione, chi si fida degli altri, chi tira ad indovinare. Tutti sistemi validi e sbagliati allo stesso tempo, che possono funzionare o no, che magari per un po’ vanno bene e poi si dimostrano inadeguati al bivio successivo, chi può dirlo. Quello che possiamo dire è com’è fatta la vigilia di una scelta, quanti dubbi, incertezze e ripensamenti la abitano. Un’aria pesante e viziata, una cappa fumosa che svanisce per incanto una volta che la decisione è stata presa, sotto energici colpi di ramazza che portano a galla una strana euforia, un’atmosfera quasi di festa, come se fosse necessario celebrare la fine del dubbio con un senso di sollievo, per andare incontro alle conseguenze della nostra scelta con animo più leggero.
La vita è come una partita a scacchi che si gioca contro il destino, su un campo di dimensioni enormi. Non sappiamo quanti pezzi abbiamo a disposizione e neppure come muoverli esattamente, è un gioco che impariamo un po’ per volta, man mano che lo giochiamo. Nonostante la nostra autostima possa essere più o meno grande, per quanti sforzi facciamo per convincerci di aver valutato le cose sotto tutti i punti di vista, ogni pezzo che muoviamo è spinto unicamente dal buonsenso, che non è possibile prevedere lo svolgimento che il gioco prenderà poco più avanti, è un calcolo troppo complicato, anche per le menti più allenate. Inutile atteggiarsi a strateghi, quello che facciamo è contentarci di scelte semplici, simili in questo ad un uomo che avanza movendosi con passo traballante nel buio, tendendo la mano in avanti in modo da accorgersi prima di un possibile pericolo. Quando facciamo una mossa un po’ diversa dal solito, il più delle volte non seguiamo un piano preciso, ma bluffiamo spudoratamente, animati dal piacere del rischio, con l’unico scopo di buttare un sasso in fondo ad un pozzo per vedere quanto è profondo. Ad ogni nostra mossa il destino risponde con una mossa analoga e a volte, quando i suoi pezzi sono vicini a noi, ci è possibile comprendere i motivi che l’hanno ispirata, ma quando i pezzi che il destino muove sono lontani dai nostri occhi la questione si complica non poco, che sappiamo che il nostro avversario ha fatto una mossa ma non quale, forse ce ne renderemo conto più avanti, forse sta accumulando truppe sul nostro lato più debole in previsione di un attacco, forse si sta solo difendendo. Non è facile capire le mosse del destino, anzi, a volte è proprio impossibile, considerando che ce la mettiamo già tutta solo per dare un senso a quelle che facciamo noi, e badare troppo ai movimenti dell’avversario rischierebbe di farci perdere la concentrazione sui nostri pezzi. In mezzo a tanti dubbi, di una cosa sola siamo certi, che la partita deve essere giocata. Non ci possiamo sottrarre al nostro ruolo, le regole che ancora non conosciamo le impareremo via via, sulla nostra pelle, si tratta di far tesoro dei nostri errori, ma non solo, che sarebbe anche troppo facile, in realtà è bene che ci abituiamo alla svelta all’idea che questo gioco ha una componente di imponderabilità dalla quale non si può prescindere. Troppe variabili, troppi fattori da considerare. Ogni volta che un pezzo cambia posizione sulla scacchiera, è tutto lo scenario che muta, strategie che sembravano ben avviate muoiono in un baleno e nel mare delle possibilità si schiudono mille sviluppi futuri, destinati a loro volta ad irrobustirsi od a naufragare con la mossa successiva. E’ bene non innamorarsi troppo di un progetto o di un’idea, che rischiano di essere spazzati via nello spazio di due mosse, questa è una delle lezioni che la partita ci impartisce. E per richiamare bruscamente alla realtà i languidi sognatori che inseguono chimere, sarà bene chiarire ancora una cosa a proposito di questa sfida, che non c’è nessun mistero, nessun dubbio sull’esito. Si sa in partenza chi vince. Vince sempre il destino, è scritto. Noi possiamo solo accontentarci di giocare la nostra partita e cercare di impegnarlo il più a lungo possibile.
Messa così la cosa è meno triste di quanto si possa pensare, che il fatto di non dover portare a casa il risultato finale ci permette di giocare la nostra partita senza assilli. E se anche la gente che affolla le balconate dell’Highland Monarch cominciasse a ragionare in questa maniera e la smettesse di cercare di dare un senso a tutti i se che l’angustiano, avrebbe di che guadagnarne in serenità. A volte è necessario sottrarsi alla logica della causalità ed arrendersi all’idea che esistano anche fenomeni che non sono spiegabili, almeno non ancora. E’ la scienza a dirci questo, che non tutti i sistemi sono lineari, e non sempre ad una piccola variazione dello stato iniziale corrisponde una variazione egualmente piccola dello stato finale. Se così fosse, se potessimo mettere in fila catene di eventi legati dal rapporto causa-effetto, potremmo spiegare praticamente tutto, fino al punto di prevedere una tromba d’aria in Texas dal battito d’ali di una farfalla in Brasile, come diceva Edward Lorenz. Per fortuna non è così, per fortuna ci sono anche i sistemi non lineari, quelli dove ad un cambiamento infinitesimale all’inizio può corrispondere uno scarto enorme alla fine o viceversa, o comunque quei sistemi dove data una variazione iniziale non è possibile prevedere quello che succederà in seguito. In fondo è bello sapere che l’uomo non ha ancora scoperto tutte le leggi della natura. Dover ammettere che il nostro destino non è tutto nelle nostre mani ma anche, e soprattutto, in quelle del Fato, ci fa sentire più fiduciosi. Magari perché riponiamo maggior fiducia nella sorte che negli uomini, ma questo è un discorso che riguarda solo noi.

sabato 8 dicembre 2012

Non ho camminato nei tuoi sogni...


Борис Рыжий

Я по снам по твоим не ходил
и в толпе не казался,
не мерещился в сквере, где лил
дождь, верней - начинался
дождь (я вытяну эту строку,
а другой не замечу),
это блазнилось мне, дураку,
что вот-вот тебя встречу,
это ты мне являлась во сне,
и меня заполняло
тихой нежностью, волосы мне
на висках поправляла.
В эту осень мне даже стихи
удавались отчасти
(но всегда не хватало строки
или рифмы - для счастья).


Non ho camminato nei tuoi sogni,
né mi sono mostrato in mezzo alla folla,
non sono apparso nel cortile
dove pioveva o meglio cominciava
a piovere (questo verso
lo cancello e non lo sostituirò),
era allettante credere, come uno stupido,
che ti avrei incontrato presto,
eri tu che mi apparivi in sogno
(e mi prendeva una dolce tenerezza),
mi sistemavi i capelli sulle tempie.
Quell'autunno perfino le poesie
in parte mi riuscivano bene
(però mancava sempre un verso o una rima
per essere felice).

[Boris Ryzhy]

sabato 24 novembre 2012

un giorno, e non finì la frase. Capitolo primo.

Una decina d'anni fa Héctor Genta pubblicava a puntate su Crònica Literaria, rivista della Patagonia argentina, il romanzo "un dia, y no terminò la frase". Successivamente raccolse i vari capitoli in una plaquette di cui fece dono alla cerchia degli amici. 
L'intento era quello di riprendere dallo stesso punto in cui Saramago aveva finito "L'anno della morte di Ricardo Reis", e raccontare gli avvenimenti successivi. A bordo dell'Highland Monarch, una delle navi che negli anni Trenta facevano la spola tra Vecchio e Nuovo mondo, si incontrano una serie di personaggi veri, falsi e verosimili che incrociano le loro storie e le loro vite. 
Protagonisti del romanzo sono, tra gli altri, Alvaro de Campos che cerca di scoprire che fine abbia fatto l'amico, Ramon Jimenez e la moglie Zenobia che effettivamente in quegli anni stavano abbandonando la Spagna per raggiungere l'America, Jusep Torres Campalans, il pittore catalano nato dalla penna di Max Aub, Marcenda, la ragazza protagonista del libro di Saramago e Lorenzo, giovane medico italiano immaginato da Héctor. 
Ho provato a tradurre (malamente) alcuni capitoli del libro. 
Questo è il primo.


Capitolo primo

L’uomo con il monocolo seduto ad un tavolino del lido 



Lui disse, I miei saluti a suo padre,
lei disse un’altra cosa,
Un giorno, e non finì la frase,
qualcuno la continuerà
chissà quando e per che cosa,
un altro la concluderà più avanti
e in quale luogo, per ora c’è solo questo,
Un giorno.

Josè Saramago: l’anno della morte di ricardo reis




 Qui la terra finisce e il mare comincia. Un sole tiepido si allunga sulla città con l’indolenza di un gatto che si stira, ancora un po’ sonnacchioso ed indeciso sul da farsi, le acque del fiume sono immobili, come se il tempo dovesse iniziare, come se gli dei che governano il mondo non si fossero decisi a dare il primo giro di ruota. Un signore con il monocolo siede composto ad un tavolino del lido, con una mano regge il giornale e con l’altra la tazzina del caffè, ma sembra poco interessato sia all’uno che all’altra e se è vero quel proverbio che dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima allora ci basterà seguirne lo sguardo per scoprire che la sua attenzione è rivolta alla gente che si sta accalcando sulla banchina là in fondo. Diciamo la sua attenzione e non il suo spirito o il suo sentimento o il suo cuore, che trovare sinonimi ad un concetto per sua natura così difficile da esprimere come è l’anima ci porterebbe lontano, e a dire la verità ci sembra anzi che il proverbio vada un po’ zoppo e che non sia facile capire i sentimenti di una persona dalla semplice osservazione delle sue pupille, ed in fondo sarebbe anche triste perché non lascerebbe più spazio al fascino del dubbio ed al piacere sottile dello scoprire le cose un po’ alla volta. A volerlo correggere, il proverbio, potremmo dire che gli occhi sono lo specchio dell’attenzione o che lo sguardo va dove vuole la testa, ma non sarebbe più lo stesso e allora forse è meglio lasciarlo com’è, che suona meglio ed in fondo proverbi zoppicanti ce ne sono più che stelle in cielo e se nessuno si è mai lamentato dei loro servigi in tanti anni non saremo certo noi a cominciare la serie. E’ il momento della partenza per quelli che hanno deciso di salire sull’Highland Monarch al porto di Lisbona, per i portoghesi che vogliono andare in Sud America, per i brasiliani che tornano a casa e anche per quelli che non sono né l’uno né l’altro ma si trovano in Portogallo per motivi che non conosciamo e che per gli stessi motivi, o per altri che egualmente non c’è dato sapere, stanno imbarcandosi sul vapore delle Regie Linee per affrontare due settimane di navigazione attraverso l’Atlantico. E’ un gregge tumultuoso quello che dalle prime ore della mattina ha cominciato ad accalcarsi disordinatamente sulle banchine del molo di Alçantara, andando via via ad ingrossare le sue fila sino a diventare una folla indisciplinata e difficile da controllare. Ci sono mariti che trascinano valigie di tutte le dimensioni seguiti da mogli impegnate nella difficile arte del tenere a bada tribù di bambini indisciplinati, gruppi di famiglia che non finiscono più di abbracciarsi e baciarsi, scaricatori erculei che saltano da una parte all’altra della banchina, facchini che urlano con un occhio al cliente che sale ed uno a quello che sta per arrivare, eleganti uomini d’affari che cercano con fastidio di schivare la massa, poveri che mendicano qualcosa da chi va e da chi resta, tassisti che si alternano senza sosta nel far scendere nuovi viaggiatori, e poi ancora gruppi di ragazzi che si radunano sul molo per assistere allo spettacolo di chi parte e finanzieri e poliziotti che si aggirano tra la gente per controllare che tutto sia in ordine e tanti tanti altri che sono lì solo per vedere chi c’è, che questa mattinata non avevano niente di meglio da fare. Sarebbe facile per il cronista che ha il compito di trovare una spiegazione per ogni accadimento, dare la colpa della confusione che regna sul molo al carattere indisciplinato dei portoghesi. Sembra già di sentirne le parole quando spiega che questa è la gente lusitana, da sempre confusionaria e allergica all’ordine ed alle buone maniere che non basterebbe l’esercito per organizzare una fila ordinata di persone, aggiungendo poi, con tono paternalistico, che in fondo non c’è neppure da stupirsi, si sa che la storia dei portoghesi è uguale alla storia di tutti i poveri cristi, i quali, non essendo nobili per nascita e non conoscendo le regole del galateo, riescono con fatica a dissimulare la loro arretratezza rispetto alle genti più evolute. Fatica inutile la loro, che poi basta un’occasione da poco, come il radunarsi davanti ad una nave che parte, per permettere all’occhio allenato del cronista di coglierne impietosamente i difetti. Bene, il lettore ci vorrà scusare ma questa volta non ce la sentiamo di gettare la croce addosso alla gente portoghese, che proprio non se lo merita. Ci dispiace caro cronista, ma la folla che si sta agitando sulla banchina è la solita folla che anima la vigilia di tutte le partenze a qualsiasi latitudine del globo, le scene alle quali assistiamo sul molo di Alçantara non sono poi dissimili da quelle che abbiamo visto alla partenza dell’Highland Monarch dai Victoria Docks di Londra e che si sono ripetute identiche come repliche di una commedia a Boulogne-sur-Mer e poi a Vigo, i porti che il vapore ha già toccato prima di fare scalo a Lisbona, ultima tappa europea prima della partenza per le Americhe. E se il temperamento degli spagnoli si può paragonare a quello dei portoghesi quanto a disordine ed approssimazione, lo stesso non si può certo dire dei francesi e dei britannici, padri riconosciuti del bon ton gli uni e dell’etichetta gli altri, popolazioni storicamente più compassate e ligie al rispetto della buona creanza ma evidentemente uguali a tutte le altre quando devono partire. Visto che abbiamo cominciato il nostro racconto con il citare un proverbio, non sarà male aggiungerne qui un altro, anche solo per ricordare quanto teniamo in considerazione queste fonti di saggezza popolare. Mal comune mezzo gaudio ci viene da dire osservando come la folla abbia il potere di rendere tutti uguali, ricchi e poveri, educati e maleducati e sì, persino inglesi e portoghesi. Viva la folla, allora, massima espressione della democrazia, con buona pace di chi la pensa diversamente. E se il cronista scandalizzato non potrà fare altro che storcere la bocca, magari rimuginando sul fatto che un comportamento condiviso da tanta gente non è di per sé indice di una sua bontà, a noi che pure non amiamo alla follia le masse viene da sorridere, forse l’aver preso le difese di questa gente ci ha fatto bene, ci ha messo di buon umore, e l’avere contribuito a ristabilire la verità ci ha fatto sentire un po’ più fieri di noi stessi ed un po’ più tolleranti con il mondo. Il tavolino del signore con il monocolo è un osservatorio privilegiato per studiare la folla sottostante. E’ una moltitudine elettrica e nervosa quella che si sta infilando a fatica lungo la scala d’imbarco formando una sorta di imbuto, e nel suo oscillare un po’ da una parte e un po’ dall’altra ricorda, ci sarà perdonata l’irriverenza, i goffi movimenti di una signora un po’ in carne che fatichi a portare il suo peso. Ognuna delle persone incolonnate è ora concentrata e ben attenta a non perdere il posto lungo la fila e pronta ad approfittare della distrazione altrui per conquistare una posizione più vantaggiosa. Con buffe corsette qualcuno, sicuramente portoghese chioserebbe il cronista irredimibile, cerca di superare qualcun altro, come se la nave non potesse contenere più di tanti viaggiatori, come se i posti non fossero riservati e per gli ultimi ci fosse il rischio di doversi sentire dire mi spiace signore ma siamo pieni, lei qui dentro non ci sta proprio, neppure a stringerci, non sa quanto ci rincresce ma siamo costretti a chiederle di scendere. Misteri delle partenze, si genera uno strana entusiasmo che finisce per contagiare anche chi dovrebbe esserne immune, è una voglia di scappare via e lasciarsi tutto alle spalle che forse ha origine nelle profondità dell’animo di ogni uomo e quando si mette in moto genera un vortice che si allarga come cerchi nell’acqua e travolge tutto quello che incontra sulla sua strada. La frenesia è un serpente dalle cui spire nessuno si può salvare, neppure il viaggiatore abituale che dovrebbe essere ormai avvezzo a questo genere di cerimonie e dovrebbe aver sviluppato una sorta di corazza che lo protegga dalle emozioni, neppure chi è costretto dalle circostanze a prendere il mare ma se potesse ne farebbe volentieri a meno, neppure chi viaggia per concludere affari e non certo per piacere. Nel fiume di gente smaniosa e berciante queste persone dovrebbero rappresentare non diciamo degli argini ma almeno delle rocce che spuntano e rendono il flusso dell’acqua un po’ meno omogeneo, e invece no, non è così, perché su questa nave persone che sfuggano all’onda dell’entusiasmo noi non ne vediamo, vorrà dire che se ci sono se ne stanno ben nascoste, rocce basse, sassolini timidi che non arrivano a tirar fuori la testa dall’acqua. Questi ultimi pensieri non sono frutto di un nostro ragionamento, ma sono considerazioni del signore col monocolo, che l’esserci messi dal suo punto di vista ci ha portato a vedere le cose con la sua testa e questo complica la storia perché ci costringe a fare pubblica ammenda e ad ammettere che forse prima non era tanto il proverbio sugli occhi e sull’anima ad andare un po’ zoppo, ma la nostra capacità di comprenderlo sino in fondo. E visto che abbiamo cominciato a ragionare come il signore seduto ad un tavolino del lido, a questo punto sarà bene dire anche qualcosa di più di quest’uomo, che per la verità sembra nutrire per la massa vociante un sentimento più simile al fastidio del cronista che alla nostra tolleranza. E’un uomo magro, abbastanza alto e forse leggermente curvo in avanti, di età indefinibile tra i quaranta ed i cinquanta, con il viso rasato ed i capelli scuri, lisci, divisi da un lato, indossa un vestito nero con camicia bianca e cravatta in tinta ed ha i modi composti ed eleganti del dandy, ma converrà dire subito che questa del dandy è una solo una nostra idea, un’impressione ricavata da un’osservazione quanto mai fugace dei suoi gesti e che nasce già viziata da quelle antipatie o simpatie epidermiche dalle quali nessuno è immune e che ci spingono a giudicare le persone con leggerezza, fidandoci della prima sensazione, per poi costringerci spesso a precipitosi cambiamenti di rotta. Ma siccome siamo previdenti, preferiamo mettere le mani avanti piuttosto che cadere e farci del male, è per questo che abbiamo scritto che questo signore sembra un dandy, non che lo è, e aggiungiamo ora che la nostra sensazione per essere confermata o smentita avrà bisogno di tempo, di tutto il tempo che ci sarà necessario per conoscere meglio questa persona. Il rito del caffè pretende l’accompagnamento di una sigaretta, o almeno così pensa l’uomo col monocolo, estraendone con cura una dal portasigarette d’argento. A giudicare dal portacenere sul tavolino, già pieno di mozziconi a quest’ora della mattina, dovrebbe trattarsi di un fumatore accanito, perché delle due l’una, o il cameriere ha trascurato il suo dovere e si è dimenticato di fare pulizia, o questa che sta accendendo non è certamente la prima sigaretta della giornata. Ma neppure la cerimonia del fumo riesce a distrarre l’occhio, o forse dovremmo dire il monocolo, curioso del nostro viaggiatore, che continua ad osservare la gente che anima il ponte con lo stesso interesse che un entomologo dedicherebbe ad una famiglia di formiche. Non gli piace la folla, questo l’abbiamo già intuito, ma il viaggiatore annoiato in qualche modo dovrà pur ingannare il tempo che separa la nave dalla partenza, e visto che la presenza di tanta gente gli impedisce di concentrarsi sulla lettura del giornale, tanto vale arrendersi e dedicarsi all’osservazione della massa. Guardando come studia le singole persone ne ricaviamo una prima, parzialissima, conferma alla nostra ipotesi che si tratti di un dandy, perché proprio come è tipico di questi aristocratici, sembra rivolgere la sua attenzione più al particolare che all’universale, considerando l’individuo mille volte più interessante della specie cui appartiene. E per continuare il paragone con l’entomologo, diremo qui che nella scelta degli oggetti sui quali posare via via l’occhio il signore con il monocolo ricorda le movenze di un ape che vola di fiore in fiore. Sembrerebbe procedere a casaccio, questa è l’impressione, ma ci viene il dubbio che non sia così e che stia invece seguendo una logica sotterranea che neppure lui conosce ma che magari è ben presente ad un livello più profondo della sua coscienza. E se finora era stato incuriosito ed anche un poco turbato dalla presenza sulla nave della polizia, fatto strano che da sempre l’ultimo controllo è quello dei finanzieri alla dogana ed una volta oltrepassata quella soglia dovremmo essere tranquilli, ma si sa, questi sono tempi in cui si parla di ordine nuovo ma soffiano venti di vecchie guerre, l’occhio del signore è attratto ora da una signorina con tailleur scuro e cappello e guanti neri. E’ una ragazza esile, dal collo lungo e fragile e dalla linea del corpo insicura. Non è la particolare avvenenza ad attrarre l’uomo, che su questa nave sono già salite e stanno ancora salendo signore e signorine in buona quantità, ma qualcosa che non riesce a definire. Ecco una delle classiche circostanze in cui non si può dire che la curiosità sia femmina, a meno di non voler insinuare dubbi maligni sulla virilità del signore col monocolo. A costo di apparire sfrontato, si concentra meglio sull’oggetto delle sue attenzioni, aggrottando un poco la fronte nello sforzo di mettere più a fuoco l’immagine. Una ragazza che cammina stringendo la borsetta al petto con le mani, seguita da un facchino che trasporta due pesanti valigie, niente di più, eppure c’è qualcosa di artificioso in tutto ciò, qualcosa che non fila, ma non si riesce a capire cosa. Come succede in casi analoghi, la mente umana non può accettare di rimanere sospesa nel dubbio troppo a lungo, perché il dubbio è un gran brutto compagno di strada, che rischia di aprire crepe pericolose lungo il cammino. L’incertezza è un folletto dispettoso che ha il potere di trasformare tutto ciò che tocca, un po’ come succede quando una goccia di colore, per non dire di sangue, cade in un bicchier d’acqua. Un attimo, e da limpido e trasparente che era il liquido diventa subito torbido, con un processo tanto veloce quanto irreversibile. Un attimo solo, e poi non è più possibile separare la goccia dal resto, tutto è diverso da come era. L’intelletto dell’uomo col monocolo ha paura del diavoletto fastidioso, per questo sta reclamando a gran voce un motivo che possa giustificare tanta attenzione per la signorina dal collo sottile. Piuttosto che aprire la porta al dubbio si accontenterà di una spiegazione qualsiasi e non potendo averne una vera vorrà dire che per questa volta andrà benissimo anche una che sia almeno verosimile. Pover’uomo, ci viene da pensare, se preferisce un’intelligenza che prende in giro se stessa ad una che sappia accettare i suoi limiti. Poveri tutti gli uomini, sarà meglio aggiungere, che il comportamento di questo signore non è altro che un paradigma, un modo di comportarsi che consciamente o inconsciamente seguiamo in tanti. Se proprio dobbiamo trovare una spiegazione che giustifichi l’interesse per la ragazza appena salita sull’Highland Monarch non avremo che l’imbarazzo della scelta, basta fermarsi un attimo a riflettere e ne troveremo millanta, e considerando che il signore con il monocolo è un uomo di discreta cultura ed appassionato di tutte le arti, quella che sceglie dal mazzo è che a colpire il suo sguardo è la linea particolare del corpo della signorina, una linea fragile, insicura, quasi instabile. Gli piace pensare che la chiave dell’arcano sta nell’indefinito delle sue forme, quello stesso indefinito che ha da sempre esercitato un fascino particolare anche nella pittura, qualcosa che ha a che fare con lo sfumato dei quadri di Leonardo, con il sorriso di Mona Lisa, un artificio voluto dall’artista per creare a bella posta un’aurea di mistero, per non lasciar cadere anche l’ultimo velo, per non chiudere il cerchio in modo da precludere la possibilità di una conoscenza completa aprendo di conseguenza la porta all’immaginazione, al dubbio. Ancora il dubbio, l’uomo con il monocolo era partito proprio dal bisogno di fuggire il dubbio e si ritrova a concludere che in realtà è proprio del dubbio che ha bisogno l’animo umano, di quella zona d’ombra che temiamo perché può far vivere i nostri fantasmi ma contemporaneamente ci serve per stimolarci a cercare, a non accontentarci di quello che abbiamo, a guardare sempre un po’ più in là. Non siamo qui per contraddire certe dotte considerazioni, ci mancherebbe, ma ci sia permesso osservare che quelle che abbiamo appena ascoltato sono sicuramente interessanti, ma non è detto che siano le uniche, come il tempo non mancherà di testimoniare. Il confine tra curiosità ed impertinenza è una linea sottile, e ora che l’interesse per la signorina esile dal collo lungo e sottile è stato in qualche modo soddisfatto, il continuare ad osservarla vorrebbe dire correre il rischio di superarlo. Peccato, pensa l’uomo con il monocolo, in fondo guardare le persone che si stanno imbarcando era un modo come un altro per vincere la noia dell’attesa. Peccato, pensiamo anche noi, che il seguire i ragionamenti di quest’uomo in certi momenti ci da le vertigini ma sicuramente ha i suoi lati divertenti. Peccato perché, ci domandiamo, che se lui ha deciso di rinunciare al suo passatempo non è detto che noi si debba fare lo stesso. Come abbiamo già detto l’esserci messi dal punto di vista di del signore con il monocolo ci ha permesso di vedere le cose con la sua testa, e visto che sbirciare nei suoi pensieri non ci ha fatto venire dei sensi di colpa fin qui, non sarà certo il caso di scandalizzarsi se continuiamo a farlo ancora un po’. Fino ad ora aveva guardato le cose con gli occhi della ragione e della curiosità, adesso che è il tedio a farla da padrone ogni immagine che gli passa davanti viene filtrata attraverso le lenti deformanti dell’indolenza, e così accade che anche questo viaggio, che pure è frutto di una sua decisione, finisca per essere messo in discussione. Pensa che sarebbe stato meglio non partire e rimanersene in Inghilterra, invece di cedere all’impulso e saltare sul primo vapore per il Sud America con l’entusiasmo di un ragazzino. E dire che avrei dovuto saperlo che il vero piacere non sta tanto nel viaggiare quanto nel rinviare il viaggio, si rammarica l’uomo, certe riflessioni non solo le ho già fatte, ma anche scritte. Partire. E perché poi, per dove. Partire è rinunciare, abbandonare qualcosa di certo per mettersi alla ricerca di qualcos’altro di vago. L’unica vigilia che amo è quella di non partire, il piacere di non avere valigie da preparare, di non avere progetti da mettere in atto, niente di niente, solo quiete e tranquillità. Un elogio dell’inazione in piena regola, niente da dire, d’altra parte già da come osservava annoiato la folla avevamo intuito che l’uomo con il monocolo doveva essere un esemplare di quelle rocce basse e di quei sassolini che non arrivano a tirar fuori la testa dall’acqua ai quali accennavamo per riferirci a quei pochi che non amano le partenze. Eppure è meglio non innamorarsi troppo delle proprie deduzioni, che basta poco per cambiare le carte in tavola. L’animo umano è un pozzo senza fondo ed a scandagliarlo con attenzione si rischia di trovarci tutto ed il suo contrario. In questo caso, ad esempio, basta un piroscafo, un battello che si appresta ad entrare in porto, per scoprire quanto volubile è l’animo di questo signore. E’ ancora lontano, si riesce a malapena a scorgerne la sagoma scura e una linea di fumo che si alza là in fondo, eppure è un’immagine sufficiente per risvegliare qualcosa che stava dormendo nella mente dell’uomo e rievocare il ricordo di un altro piroscafo. E’ incredibile vedere come in questo signore dai modi posati salti fuori dal nulla una specie di euforia che mai avremmo immaginato, il desiderio di legare i propri destini a quelli della nave, per solcare con lei tutti i mari ed affrontare ogni genere di avventure, una voglia irrazionale di provare tutto, un misto di entusiasmo e di paura, di aspirazione all’ignoto ed insieme paura del vuoto. Strano personaggio davvero, ed anche un po’ inquietante, ci sia permesso di aggiungere, nei suoi sbalzi di umore, per non dire della coerenza, che non sembra certo una delle virtù con le quali abbia più confidenza. Ma ora basta, non è bello criticare un uomo che non sa che stiamo leggendo nei suoi pensieri, è giusto dire anche qualcosa in sua difesa, perché se non è coerente almeno è onesto e non si vergogna di farsi vedere per com’è. Al suo cospetto siamo noi che ci vergogniamo, noi che ci sforziamo di essere quello che non siamo in nome di una coerenza che spesso è più sbandierata che vissuta. Per amor di precisione sarà bene precisare che il battello che ha colpito l’attenzione del signore con il monocolo in realtà è un’unità della Marina portoghese che pattuglia al largo del porto di Lisbona. A dire il vero non si capisce la sua funzione, che al momento non sono attese visite di misteriosi nemici al largo delle coste lusitane, ma tant’è, il clima del tempo non è dei migliori e forse i governanti del posto pensano che mostrare i muscoli sia un modo per scoraggiare i malintenzionati e contemporaneamente rassicurare la popolazione. Sarà, non spetta a noi esprimere giudizi che non siamo esperti di cose militari, ma quello che possiamo dire è che la presenza di navi militari davanti e dentro al porto ci rende nervosi, i due cacciatorpedinieri ancorati ai lati dell’Highland Monarch ci fanno pensare ai ladroni crocefissi ai lati del Cristo sul Golgota, e la polizia che si aggira sulla nave fermando persone e controllando documenti continua a non convincerci e men che meno a rassicurarci. L’orologio segna le undici, un’ora esatta alla partenza, evento da festeggiare con una nuova sigaretta ed un’occhiata alle notizie del giornale. E’ un quotidiano inglese quello che il signore con il monocolo stringe fra le mani ed un articolo quantomeno bizzarro quello che ha catturato la sua attenzione. Si parla di una bottiglia contenente un messaggio, ritrovata due settimane prima sulle coste della Danimarca. Il giornalista ha indagato sulla storia che la bottiglia si porta dietro come un novello Poirot, o forse sarebbe meglio dire Sherlock Holmes, visto che la bottiglia è partita dall’Inghilterra, Reading per la precisione. Reading, strano, la traduzione letterale del nome di questa città è un gerundio, reading vuol dire leggendo, ed è proprio quello che l’uomo con il monocolo sta facendo in questo istante. Un messaggio messo in bottiglia a Reading ed affidato alle cure del Tamigi per poi essere ritrovato intatto a Oksby, Danimarca, quasi due anni dopo. Reading la conosco, pensa l’uomo, è qualche miglia a nord di Londra, ma dell’altro posto non so quasi nulla, l’articolo si limita a dare indicazioni vaghe, dicendo che si trova in un punto imprecisato delle coste danesi, tra Ringkøbing e Esbjerg, nomi che mi dicono molto poco se non niente. Ci vorrebbe un atlante, pensa l’uomo, per andare a vedere dov’è di preciso questa Oksby. Al signore con il monocolo sono sempre piaciuti atlanti, mappamondi e carte geografiche, da piccolo era affascinato dai nomi delle città, di tutte, non solo delle capitali e delle città principali, quelle scritte in grassetto o in stampatello o sottolineate, anzi quelli che preferiva erano i piccoli centri, quelli con i nomi più strani, si divertiva ad accarezzarli con l’indice della mano destra immaginando come sarebbe potuto essere la vita in quei posti. Ancora adesso, che di anni ne ha quasi quarantasette, non ha abbandonato le antiche abitudini e quando può gli piace riprendere l’antico gioco. Qualcuno potrà trovare disdicevole un atteggiamento del genere in un uomo di questa età, che giocare con l’immaginazione come farebbe un bambino non è comportamento degno di un adulto, e probabilmente questa obiezione è anche fondata, ma su questo tema noi preferiremmo non pronunciarci, non fosse altro perché sappiamo che nel nostro piccolo non abbiamo ancora chiuso del tutto la scatola dei giochi. Due anni di navigazione prima lungo il Tamigi e poi in mare aperto senza rompersi, un miracolo vero e proprio, pensa l’uomo, due anni per approdare in un posto del quale chi ha scritto il messaggio neppure sospettava l’esistenza. La lettera in sé non è niente di particolare, almeno per il signore con il monocolo. Una lettera d’amore, che l’autore aveva affidato alle onde non avendo trovato il coraggio di rivelarsi all’amata. Il giornale non si è fatto scrupolo di violare l’intimità dei sentimenti, e perché poi visto che chi aveva messo quel messaggio in bottiglia doveva pur immaginare che qualcuno avrebbe potuto ritrovarlo. Cara G, scriveva, affido alle onde le parole che non ho avuto la forza di affidare alle labbra. Che ridicolo, pensa l’uomo con il monocolo, tutte le lettere d’amore sono ridicole, e magari in questo fatto ci sono anche un bel po’ di cose inventate, si sa come sono fatti i giornalisti, che per vendere qualche copia in più sono capaci di colorare una notizia sino a renderla inverosimile. Chissà dove finisce la realtà e dove inizia la fantasia in questa storia, pensa lui, chissà dove finisce la realtà e dove inizia la fantasia in tutte le storie, pensiamo noi, e chissà poi perché consideriamo così importante distinguere le due cose, chissà che cosa ricaviamo da questa distinzione, forse una vita migliore, non sappiamo, ma ne dubitiamo fortemente. Forse il nostro è bisogno di ordine, di disciplina, forse è di nuovo quella maledetta paura che il dubbio si insinui fra le certezze con le quali cerchiamo di proteggere i nostri giorni e che produca danni irreversibili. Che razza di notizia, pensa l’uomo con il monocolo, con i cupi presagi che si addensano sull’Europa e sul mondo intero in questo momento, i giornali non trovano niente di meglio che uscirsene con una storia più da rotocalco scandalistico che da quotidiano, anche se priva di quegli happy end che vanno oggi tanto di moda nei film americani che si proiettano nei cinematografi. Il giornalista ficcanaso non si era fermato alla notizia, ma era riuscito a risalire ai protagonisti della vicenda, scoprendo così che la misteriosa G., ignara di essere oggetto del desiderio dell’autore della lettera, era nel frattempo convolata a nozze con qualcun altro ed anche il suo spasimante aveva ben presto dimenticato le pene del cuore per fidanzarsi a sua volta con un’altra signorina. Che tutte queste storie fossero vero amore non lo sappiamo, quel che è certo è che, una volta diventata di dominio pubblico, la lettera venuta dal passato era piombata su Reading come una bomba, portando lo scompiglio in almeno quattro anime. Se ben utilizzata la curiosità morbosa spinta ai limiti del voyeurismo è sempre stata una molla in grado di moltiplicare in maniera esponenziale l’interesse della gente, lo sa bene il giornalista cinico e furbo che si è limitato a pubblicare le iniziali dei protagonisti, guardandosi bene da fare i nomi. Dire e non dire, questa è la regola del gioco che si è scatenato in tutta Reading, dare dei nomi ed un faccia a quelle iniziali. M.T. è lo scrittore e G.S. l’amata. M. potrebbe stare per Mark o Michael o Matthew o Mike o Maurice. O Mario. Mario, che razza di idea, come può chiamarsi con un nome portoghese uno di Reading. Perché no, perché non può essere portoghese, o spagnolo o italiano, non è mica vietato chiamare un bimbo inglese con un nome che inglese non è. Non sarà vietato ma a molto improbabile. Sono d’accordo, ma fino a quando non sapremo il vero nome dello scrittore del messaggio in bottiglia, Mario avrà la stessa dignità di Mark o Michael o anche Mozambo, visto che siamo nel campo delle ipotesi. E già che ci siamo diremo anche le iniziali degli altri protagonisti della storia, O.R. è la fidanzata attuale di M.T. e A.M. il marito di G.S.. Questo sarebbe pane per il mio amico Alexander Search, grande appassionato di giochi enigmistici, pensa l’uomo con il monocolo, avrebbe di che sbizzarrirsi con tutte queste sigle. M.T. ed O.R. non suonano certo bene, ma a dire la verità neppure M.T. con G.S., mescolando tutte queste lettere sembrerebbe che la coppia che potrebbe stare meglio insieme è quella formata dalle due persone che c’entrano meno in tutta la storia, vale a dire il marito della destinataria della lettera e la a fidanzata dello scrittore timido. A.M. ed O.R., amor in portoghese e non love come si dovrebbe dire in terra d’Albione. Un caso, certo, ma che ci fa segnare un punto a favore dell’ipotesi che l’ignoto M.R. possa essere proprio un Mario. E’ il suono della sirena che annuncia la partenza dell’Highland Monarch a riportare l’uomo con il monocolo alla realtà. Le manovre che precedono la partenza dal molo di Alcantara sono già iniziate da qualche minuto, fra poco si leveranno le ancore e la nave farà rotta verso l’Oceano. Quelli che hanno appena finito la corsa per salire prima degli altri sul vapore delle Regie Linee, sono ora impegnati nella battaglia per conquistare un posto privilegiato alle balaustre della nave, in modo da salutare come si conviene quelli che sono rimasti a terra. E’ l’ora della malinconia, dei pensieri e dei turbamenti. Gli affetti sono compagni di viaggio che a volte possono risultare un po’ scomodi, la ragione con loro si comporta come una mamma premurosa, li blandisce e li coccola per farli stare seduti e composti al loro posto, ma basta che si distragga un attimo che loro saltano giù dal seggiolino e corrono via per andare dove li porta l’istinto. L’uomo seduto al tavolino del lido ha deciso che lo spettacolo per lui è terminato e poco importa se a giudizio di molti proprio ora sta per iniziare la scena più carica di pathos, incurante di tutto e di tutti ripone con cura il giornale, si alza, si aggiusta la giacca e poi si avvia a passi lenti verso uno dei saloni interni, dove spera che potrà godere di un po’ più di tranquillità. Non gli piacciono le cerimonie degli addii, lo sventolare di fazzoletti e di mani, lo spreco di urla, di pianti e risa, trova che il passare dall’euforia alla desolazione nel breve arco di pochi minuti sia un segno di quanto poco equilibrio abbia la gente, di come si lasci trasportare da reazioni eccessive quando sarebbe preferibile fare sfoggio di misura e moderazione. Considerazioni condivisibili, ci mancherebbe, ma che un po’ ci fanno sorridere, che è proprio vero che l’uomo ha la memoria corta e vede la pagliuzza nell’occhio dell’altro ed ignora la trave che ha nel suo. Ma è meglio fermarsi qui senza riprendere a filosofare sulla coerenza o meno del signore con il monocolo, che come abbiamo già detto ognuno di noi è libero di pensarla come vuole e il vantaggio che abbiamo su di lui di poter leggerne i pensieri ci suggerisce di rispettarlo un po’ di più. Prima di imbucare il sottopassaggio che lo porterà verso uno dei bar della prima classe l’uomo si concede un’ultima occhiata, ma non una qualsiasi, no, la sua è un’occhiata da vero dandy, da uno che sdegna la folla berciante del molo e getta lo sguardo fiero verso il mare aperto. C’è nebbia al largo, una nebbia fitta che corre in banchi veloci verso terra. Che strano, pensa, di solito la nebbia compare al mattino presto e poi sparisce con l’avanzare del giorno. La nebbia. Un volano, in grado di catapultare i pensieri del signore con il monocolo in un’altra dimensione, ora quella a cui stiamo assistendo non è una semplice occhiata, seppure da dandy, ma qualcosa di molto più profondo, davanti ai suoi occhi scorrono ora le profezie di Bandara e le parole di Antònio Vieira, e siamo certi che se dalle acque saltasse fuori un don Sebastiàn a cavallo ci sarebbe sulla nave almeno una persona che non se ne stupirebbe affatto.