domenica 1 maggio 2016

Clarice Lispector – Legami familiari





“Il suo era l’apprendistato della pazienza, il voto dell’attesa. Dal quale forse non avrebbe più saputo liberarsi”
Ho faticato un po’ ad entrare in sintonia con i racconti della Lispector. La narrazione in terza persona, i periodi brevi che si limitano a descrivere comportamenti, gesti, parole e soprattutto la costruzione paratattica che trasporta gli avvenimenti in un eterno presente dominato da un’atmosfera di attesa e sospensione, mi attiravano sempre più dentro alla storia, sempre più avanti nella trama e contemporaneamente mi davano l’impressione che mi stessi perdendo qualcosa.
Perché c’è sempre qualcosa che si è perso, che si è rotto, nei personaggi della Lispector, qualcosa da cui discende tutto il resto.
Una raccolta che esplora - come detto nel titolo - l’universo della famiglia, le persone per quello che sono e per come interagiscono (o non interagiscono) tra loro. Mi viene in mente Felici i Felici, di Yasmina Reza: le due autrici affrontano pressappoco lo stesso argomento a cinquant’anni di distanza, anche se con una scrittura decisamente diversa, più compassionevole l’occhio della franco-iraniana,  decisamente più “crudo” il punto di vista della scrittrice (ucraino-)brasiliana.
Clarice Lispector osserva le dinamiche familiari, vite in bilico,  e ce le restituisce senza ammorbidirle, senza provare a smussare gli angoli. Questa è la vita, – sembra volerci dire – questi siamo noi. Specchiamoci e riflettiamo su quello che i nostri occhi vedono. Nessuna indulgenza, nessuna assoluzione. Solo la nuda descrizione di quello che i personaggi  provano.
È un vivere difficile, quello che si racconta nelle pagine di Legami familiari, un vivere al quale non si può sfuggire, ma solo cercare di interpretare sforzandosi di farsi meno male possibile, agendo con circospezione, stando perennemente sulla difensiva.
I personaggi della Lispector vivono soprattutto dentro se stessi, consapevoli che uscire dal guscio che si sono costruiti può rappresentare un rischio del quale non sanno calcolare la portata, accompagnati dalle “meschinità di una vita intima fatta di precauzioni”.
Sono racconti che comunicano un senso di qualcosa che incombe, che rischia di succedere da un momento all’altro. Quello che vediamo è un mare nero, con le acque ferme, ma sotto intuiamo che c’è un agitarsi di correnti, un turbinio di emozioni e sentimenti, che salgono e scendono senza raggiungere mai la superficie,  condannate a vivere compresse.
Ecco, credo che proprio questa “tensione”  sia la cifra di Legami familiari, una tensione che la Lispector dimostra di maneggiare con precisione ed efficacia, esprimendola al meglio quando descrive quell’ambivalenza affettiva dei personaggi sulla quale si è soffermata la psicanalisi.
Qualche esempio:
“Amava il mondo, amava quanto era stato creato – amava con repulsione. Così come era sempre stata affascinata dalle ostriche, con quel vago disgusto che l’approssimarsi della verità le provocava, mettendola in guardia.”
“perché quella bellezza estrema la disturbava. La disturbava? Era un rischio. Ma, no, perché un rischio?, la disturbava solamente, erano un avvertimento, ma! no, perché un avvertimento?”
“rifletté sulla crudele necessità di amare. Rifletté sulla malignità del nostro desiderio di essere felici. Rifletté sulla ferocia con la quale desideriamo giocare.”
“qualcosa di simile alla felicità, non era ancora odio, ma una volontà tormentata di odio simile a un desiderio”
Amore e odio, paura della verità, il bello che attrae e spaventa e poi tanta solitudine, anche questa cercata e fuggita al tempo stesso, ma alla quale i personaggi si votano per poter sopravvivere:
“«Sono sola al mondo! Nessuno mai mi aiuterà, nessuno mai mi vorrà bene! Sono sola al mondo!»”
“tutto quello che sentiva restava prigioniero dentro il suo petto, in quel petto che sapeva solo rassegnarsi, solo sopportare, solo chiedere perdono, che sapeva solo perdonare, che aveva imparato soltanto a possedere la dolcezza dell’infelicità, che aveva imparato solo ad amare, amare, amare. Pensò che non sarebbe mai riuscita a tradurre in azione quell’odio di cui era sempre stato fatto il suo perdono.”


mercoledì 27 aprile 2016

Non si può capire tutto subito.



...siamo ridicoli, superficiali, 
non cattive abitudini, ci annoiamo, non sappiamo osservare, non sappiamo comprendere, siamo tutti della stessa pasta, tutti, sia voi sia io, sia loro! Ecco non vi offendete se vi dico in faccia che siete ridicoli? E se è così, non è vero che siete materia viva? Sapete, secondo me, essere ridicoli a volte è bene, persino meglio: è più facile perdonarsi l'un l'altro, è più facile riconciliarsi. Non si può capire tutto subito, non si può cominciare dalla perfezione! Ci sono tante cose da non capire prima di raggiungere la perfezione! Quando si capisce troppo in fretta, non si capisce bene.

[Fëdor Dostoevskij -  "L'Idiota"]




sabato 23 aprile 2016

Fëdor Dostoevskij – L’idiota



Tra Leonardo e Brunelleschi 
 

C’è uno scienziato chino sul microscopio del suo laboratorio, intento ad osservare un preparato. Ogni tanto regola la messa a fuoco dello strumento, cambia l’obiettivo, sposta di pochi millimetri il vetrino. Sbuffa, si stropiccia gli occhi e poi li alza verso il cielo. Non è soddisfatto, c’è qualcosa che manca.
Allora si alza. Va a cercare qualcosa tra gli scaffali, apre e chiude sportelli, rovista nei vari scomparti, poi estrae una boccetta di liquido colorato. Torna al microscopio, inforca gli occhiali, poi con una pipetta preleva con attenzione del liquido dal contenitore e ne lascia cadere una sola goccia sul preparato, quindi riprende ad osservare.
Ora finalmente va bene, e lo scienziato un po’ guarda attraverso le lenti del microscopio e un po’ trascrive su un taccuino quello che i suoi occhi vedono.
Lo scienziato si chiama Fëdor Dostoevskij, il preparato che sta osservando è l’umanità e la goccia caduta sul vetrino il principe Myškin.

Una goccia importante, una sostanza in grado di cambiare le carte in tavola, di attirarle a sé con una forza magnetica. Una goccia che si chiama bellezza.
“L’idea principale del romanzo è quella di rappresentare una natura umana pienamente bella. Non c’è niente di più difficile al mondo, e specialmente oggi. Tutti gli scrittori, non soltanto russi, ma anche tutti gli europei, che si sono accinti alla rappresentazione di un carattere bello e allo stesso tempo positivo, hanno sempre dovuto rinunciare. Giacché si tratta di un compito smisurato. Il bello è un ideale, e l’ideale – sia il nostro sia quello dell’Europa civilizzata – è ben lontano dall’essere stato elaborato.
Al mondo c’è stato soltanto un personaggio bello e positivo, Cristo, tantoché l’apparizione di questo personaggio smisuratamente, incommensurabilmente bello costituisce naturalmente un miracolo senza fine. (Tutto il Vangelo di Giovanni è concepito in questo senso: egli trova tutto il miracolo nella sola incarnazione, nella sola apparizione del bello.) Ma mi sono spinto troppo lontano. Dirò soltanto che tra tutti i personaggi umanamente belli della letteratura cristiana il più completo e perfetto è Don Chisciotte. Ma Don Chisciotte è bello unicamente perché è allo stesso tempo ridicolo.”
Così scrive l’autore in una lettera alla nipote Sofja Aleksandrovna Ivanova, datata gennaio 1868.
L’Idiota è quindi un grande romanzo sulla Bellezza: quella bellezza che attrae e respinge, troppo grande, troppo potente, troppo ingombrante per poter essere compresa davvero, Bellezza simile a un veliero sul quale ci si può imbarcare ma che non possiamo pensare di governare.
E il principe Myškin incarna questa bellezza. Un essere diverso da tutti gli altri, che vive in un mondo suo, dove le classi sociali, le convenzioni, il denaro non hanno nessuna importanza. Un uomo buono, sensibile, onesto, incapace di mentire, che agisce senza fare calcoli, che vede la bontà e la buona fede in tutti, che è attirato dalla sofferenza e che ama il suo peggior nemico. Un uomo che considera la compassione “la più importante e forse l'unica legge di vita di tutta l'umanità” al punto da portarla fino alle estreme conseguenze e che ha il dono di leggere nell’animo di quella gente che vorrebbe aiutare a vivere meglio (“scusate, principe, - dice ad un certo punto uno dei personaggi del romanzo - ma voi siete di una semplicità, di un'innocenza che neanche nell'età dell'oro, e nello stesso tempo, tutt'a un tratto, con una profondissima penetrazione psicologica, trapassate la gente da parte a parte, come una freccia”). Un uomo che in un mondo come il nostro è inesorabilmente destinato a soccombere.
Questo per quanto riguarda il contenuto. Da un punto di vista formale possiamo osservare come nell’Idiota si realizzi alla perfezione quella polifonia di cui parla Bachitn a proposito del romanzo dostoevskijano: Parfen Rogožin, Ganja Ardalionovic, Kolja, Ippolit e soprattutto Aglaja Epančina e Nastas’ja Filippovna… la personalità di ogni personaggio emerge attraverso dialoghi e interazioni che permettono di caratterizzarli in maniera compiuta.
Due paragoni mi ha fatto venire in mente la lettura dell’Idiota: quello tra la polifonia nella storia del romanzo e l’invenzione della prospettiva nella storia dell’arte, e quello tra lo “sfumato” leonardesco e l’attenzione che Dostoevskij dedica ai dettagli, alle contraddizioni, ai “doppi pensieri”, alla passione, al contrasto verità/bellezza, alle nuances dell’amore, alle mille pieghe dell’animo umano.

sabato 16 aprile 2016

Juan Carlos Onetti – Il pozzo


Tutto nella vita è merda, e adesso siamo ciechi nella notte, attenti e senza capire.

Un uomo che cammina in una stanza: “giravo con le mani dietro la schiena, ascoltando le pantofole che sbattevano sulle piastrelle, annusandomi a turno le ascelle”.

Un ricordo evocato: la spalla arrossata di una prostituta.

E ancora: la quotidianità della vita che scorre distratta fuori dalla finestra.

Poi, improvviso e malinconico, il pensiero che il giorno seguente compirà quarant’anni, l’età dei bilanci, che forse è arrivato il momento di mettere su carta.

“Ma oggi voglio qualcosa di diverso. Qualcosa di meglio della storia di quel che non è successo. Mi piacerebbe scrivere la storia di un’anima, di lei sola, senza gli avvenimenti con cui, volente o nolente, ha dovuto mescolarsi. Altrimenti sogni.”

Andare dritti all’essenza, senza scorciatoie o divagazioni. Ma un’essenza che prevede la frequentazione di piste poco battute, strade impervie, pericolose.

C’è tutto Onetti in questo incipit, o almeno una gran parte. La capacità di trattare vita e sogno come pochi sanno fare, con l’abilità di un chimico che tiene le due sostanze in contenitori diversi per poi farle reagire e studiare cosa ne può scaturire.

Eladio Linacero è un uomo diviso tra il bisogno di sentirsi compreso e la consapevolezza che ciò non è possibile, perché “non c’è nessuno che abbia un cuore puro, nessuno davanti al quale sia possibile mettersi a nudo senza vergogna.”

“È come con un’opera d’arte. C’è soltanto un piano sul quale può essere intesa. Peccato però che la fantasticheria si ferma lì, nessuno ha inventato il modo di esprimerla, il surrealismo è retorica. Soltanto da soli, a volte, nella zona fantastica della propria anima.”

Solitudine, quindi. Una strada senza uscita che ti spinge ancora di più a non aprirti agli altri e ad essere te stesso solo nei tuoi sogni.

Nonostante Eladio ci racconti (e soprattutto si racconti) di non passare le sue giornate a immaginare cose, ma di vivere, è evidente come cerchi in realtà di darsi un contegno, un’apparenza di vita sociale. Troppo forte è la discrepanza che avverte tra il valore che si attribuisce alle persone e quello dei sentimenti (l’assurdità “di dare più importanza allo strumento che alla musica”), per poter fingere di essere come gli altri.

I sentimenti sono troppo potenti per poter essere equiparati a qualcosa o qualcuno. Come l’amore, quello che c’era tra lui e Cecilia, la ragazza da cui sta divorziando: amore che “come un figlio” era “uscito da noi. Lo nutrivamo, ma lui aveva una sua vita separata. Era meglio di lei, molto meglio di me. Come fai a paragonarti a quel sentimento.”

Già, con i sentimenti non c’è partita: hai voglia di star lì a cercare di chiuderli da qualche parte, loro sono fatti per gli spazi aperti e finiscono per travolgere ogni steccato. Che è quello che succede quando l’immaginazione torna a bussare alla porta di Eladio per reclamare spazio, una fantasticheria così bella e perfetta (vedere Cecilia che scende la rambla con un vestito bianco) che chiede di essere replicata, di vivere nella vita vera, anche se è notte. Pretendere di spiegare agli altri il proprio mondo interiore che tracima all’esterno è impossibile, figuriamoci se si può sperare che possano addirittura comprenderlo…

Questo è il dramma di Eladio: avrebbe bisogno di sapere che anche gli altri sognano, che anche loro hanno fantasticherie, pensieri incontaminati, così diversi dalle bassezze della quotidianità. Amore, amicizia, innocenza: questi sono i sentimenti puri, porte d’accesso a un’intimità “vera”, lettere di un alfabeto diverso che permetta di scrivere secondo il linguaggio dell’anima, strumenti per costruire ponti che facciano comunicare le persone davvero, senza secondi fini o strategie.

Un’utopia, probabilmente.

mercoledì 6 aprile 2016