Tutto
nella vita è merda, e adesso siamo ciechi nella notte, attenti e senza capire.
Un uomo che
cammina in una stanza: “giravo con le
mani dietro la schiena, ascoltando le pantofole che sbattevano sulle
piastrelle, annusandomi a turno le ascelle”.
Un ricordo
evocato: la spalla arrossata di una prostituta.
E ancora: la
quotidianità della vita che scorre distratta fuori dalla finestra.
Poi, improvviso
e malinconico, il pensiero che il giorno seguente compirà quarant’anni, l’età
dei bilanci, che forse è arrivato il momento di mettere su carta.
“Ma oggi voglio qualcosa di diverso. Qualcosa di
meglio della storia di quel che non è successo. Mi piacerebbe scrivere la
storia di un’anima, di lei sola, senza gli avvenimenti con cui, volente o
nolente, ha dovuto mescolarsi. Altrimenti sogni.”
Andare dritti all’essenza,
senza scorciatoie o divagazioni. Ma un’essenza che prevede la frequentazione di
piste poco battute, strade impervie, pericolose.
C’è tutto Onetti
in questo incipit, o almeno una gran parte. La capacità di trattare vita e
sogno come pochi sanno fare, con l’abilità di un chimico che tiene le due
sostanze in contenitori diversi per poi farle reagire e studiare cosa ne può
scaturire.
Eladio Linacero
è un uomo diviso tra il bisogno di sentirsi compreso e la consapevolezza che
ciò non è possibile, perché “non c’è nessuno
che abbia un cuore puro, nessuno davanti al quale sia possibile mettersi a nudo
senza vergogna.”
“È come con un’opera d’arte. C’è soltanto un piano
sul quale può essere intesa. Peccato però che la fantasticheria si ferma lì,
nessuno ha inventato il modo di esprimerla, il surrealismo è retorica. Soltanto
da soli, a volte, nella zona fantastica della propria anima.”
Solitudine,
quindi. Una strada senza uscita che ti spinge ancora di più a non aprirti agli
altri e ad essere te stesso solo nei tuoi sogni.
Nonostante
Eladio ci racconti (e soprattutto si racconti) di non passare le sue giornate a
immaginare cose, ma di vivere, è evidente come cerchi in realtà di darsi un
contegno, un’apparenza di vita sociale. Troppo forte è la discrepanza che
avverte tra il valore che si attribuisce alle persone e quello dei sentimenti (l’assurdità
“di dare più importanza allo strumento
che alla musica”), per poter fingere di essere come gli altri.
I sentimenti
sono troppo potenti per poter essere equiparati a qualcosa o qualcuno. Come l’amore,
quello che c’era tra lui e Cecilia, la ragazza da cui sta divorziando: amore
che “come un figlio” era “uscito da noi. Lo nutrivamo, ma lui aveva
una sua vita separata. Era meglio di lei, molto meglio di me. Come fai a
paragonarti a quel sentimento.”
Già, con i
sentimenti non c’è partita: hai voglia di star lì a cercare di chiuderli da qualche
parte, loro sono fatti per gli spazi aperti e finiscono per travolgere ogni
steccato. Che è quello che succede quando l’immaginazione torna a bussare alla
porta di Eladio per reclamare spazio, una fantasticheria così bella e perfetta
(vedere Cecilia che scende la rambla con un vestito bianco) che chiede di
essere replicata, di vivere nella vita vera, anche se è notte. Pretendere di
spiegare agli altri il proprio mondo interiore che tracima all’esterno è
impossibile, figuriamoci se si può sperare che possano addirittura comprenderlo…
Questo è il
dramma di Eladio: avrebbe bisogno di sapere che anche gli altri sognano, che
anche loro hanno fantasticherie, pensieri incontaminati, così diversi dalle bassezze
della quotidianità. Amore, amicizia, innocenza: questi sono i sentimenti puri,
porte d’accesso a un’intimità “vera”, lettere di un alfabeto diverso che
permetta di scrivere secondo il linguaggio dell’anima, strumenti per costruire
ponti che facciano comunicare le persone davvero, senza secondi fini o
strategie.
Un’utopia,
probabilmente.
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