domenica 24 agosto 2014
sabato 23 agosto 2014
Parole, parole, parole...
Le nostre parole sono come squadre di salvataggio che non rinunciano alla ricerca, il loro scopo è riscattare gli eventi passati e le vite ormai spente dal buco nero dell’oblio.
Le parole sono frecce, proiettili, uccelli leggendari all'inseguimento degli dei, le parole sono pesci preistorici che scoprono un segreto terrificante nel profondo degli abissi, sono reti sufficientemente grandi da catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte le parole non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilità.
[Jón Kalman Stefánsson: "Paradiso e Inferno"]
Spesso le parole sono solo pietre inerti, indumenti consunti e laceri. Possono anche essere erbacce, portatori di infezioni nocive, assi marce che non reggerebbero nemmeno il peso di una formica, figuriamoci la vita umana. Eppure, le parole sono una delle poche cose di cui disponiamo davvero, quando tutto sembra prendersi gioco di noi. Tienilo a mente. E tieni a mente anche una cosa che nessuno capisce: le parole più insignificanti e improbabili possono caricarsi inaspettatamente di un pesante fardello, e condurre la vita in salvo, oltre burroni vertiginosi.
Alcune parole sembrano sopportare il potere distruttivo del tempo, è così strano, certo, si stagionano, diventano un po’ opache, ma resistono e conservano in loro le vite trascorse da tempo, conservano il battito di cuori scomparsi, l’eco di una voce infantile, conservano antichi baci.
Alcune parole sono scorze nel tempo, e racchiudono forse il ricordo di te.
Le parole possono essere proiettili, ma possono anche essere squadre di soccorso.
[Jón Kalman Stefánsson: "La tristezza degli angeli"]
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domenica 10 agosto 2014
Jón Kalman Stefánsson – Paradiso e Inferno
Paradiso e Inferno è un libro di una bellezza struggente.
Ritroviamo la domanda “perché si vive?” che era alla base di Luce d'estate, anche se qui è rappresentata in maniera diversa, vale a dire nella ricerca da parte del Ragazzo (il protagonista del libro) dell'essenza delle cose, qualunque essa sia, essenza che che Bardur, un altro dei dei personaggi, identifica con la poesia, capace di portare “in luoghi dove le parole non arrivano".
Già, le parole. Paradiso e Inferno è un libro di parole, che racconta tante storie, ma soprattutto che racconta - come ogni grande opera che si rispetti - la Vita, che cerca di far rivivere chi non c'è più, di richiamarlo alla memoria per fargli raccontare ancora una volta la sua storia, per vincere la Morte.
Le parole di Jón Kalman Stefánsson sono da gustare una ad una, da lasciar sciogliere in bocca come caramelle. Parole che cadono leggere come fiocchi di neve, sembra che non possano far male, che debbano scivolare via veloci come pioggia e invece rimangono e si compattano in una prosa densa. Ecco, Stefánsson scava nell'anima dei personaggi come un chirurgo gentile, che opera con mano delicata ma ferma, sapendo perfettamente dove andare a parare e cosa toccare.
Le parole, si diceva. Bardur muore per star dietro alle parole, quelle parole che il Ragazzo ascolta e spesso non sa dire. Le parole alle quali l'autore attribuisce il ruolo di “squadre di salvataggio che non rinunciano alla ricerca, il loro scopo è riscattare gli eventi passati e la vita ormai spenta dal buco nero dell'oblio”, parole che però hanno due facce perché sono “reti sufficientemente grandi da catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilità”.
Paradiso e Inferno è un libro sospeso tra buio e luce, il buio della morte, della resa e della rinuncia alla lotta e la luce che invece ci spinge ad andare avanti, perché “da qualche parte, nel profondo delle regioni della mente, si nasconde una luce che tremola e rifiuta di estinguersi, rifiuta di cedere il passo al peso delle tenebre e allo morte che soffoca. Quella luce ci alimenta e ci tortura, ci costringe a continuare invece di sdraiarci per terra come bestie prive di favella e aspettare ciò che, forse, non arriverà mai. La luce brilla, noi andiamo avanti. I movimenti senza dubbio incerti, esitanti, ma il loro fine è ben chiaro – salvare il mondo. Salvare te e noi stessi con queste storie, questi brandelli di versi e di sogni che da tempo sono precipitati nell'oblio. Ci troviamo a bordo di una barca che fa acqua, e con le reti guaste vogliamo pescare le stelle.”
Oltre che scrittore di narrativa Jón Kalman Stefánsson è anche scrittore di poesie e direi che qui la sensibilità del poeta si vede tutta.
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sabato 9 agosto 2014
domenica 3 agosto 2014
Witold Gombrowicz – Ferdydurke
Ferdydurke è un libro “coraggioso” ed anticonformista.
Gombrowicz è perfettamente consapevole dei rischi che corre decidendo di affrontare un argomento come l'immaturità, eppure lo fa con coerenza apprezzabile. Nessun ammiccamento, nessuna strizzatina d'occhio al lettore, nessuna intenzione di épater le bourgeois, solo la decisione dell'autore di tirare dritto per la sua strada, senza schivare le difficoltà, anzi decidendo di evidenziarle.
Si parla di immaturità, di quella del singolo e di quella della massa, e Gombrowicz affronta l'argomento “da dentro”, ammettendo la sua immaturità e sottolineandola anche con uno stile che a tratti può rendere fastidiosa la lettura, ma tant'è: se vuoi capire il mare devi bagnarti – sembra dirci Gingio, il protagonista del libro, invitandoci ad entrare nelle pagine di Ferdydurke.
L'immaturità è la malattia della nostra epoca, dice Gombrowicz riferendosi al periodo tra le due Guerre, e proprio il riconoscere di non esserne immune lo rende diverso dagli altri, perché tra chi è infantile sapendo di esserlo e chi lo è atteggiandosi da campione della maturità, la differenza è grande. Il primo parte da una consapevolezza che all'altro manca e cerca di superare il suo status, mentre il secondo non aspira a nulla, è convinto della sua superiorità e pertanto destinato a non “evolvere”.
Parlare di immaturità senza fare ricorso ai consunti luoghi comuni non è semplice, ma Gombrowicz riesce ad evitare anche questo tranello: spontaneità, bei sentimenti, idealismo e voglia di sognare hanno il loro contraltare in stupidità, rifiuto delle responsabilità, infantilismo e ristrettezza degli orizzonti.
Ferdydurke non è un libro divertente, come potrebbe sembrare in apparenza. L'ironia è piuttosto sarcasmo, che talora scivola nel grottesco, un occhio caustico su una realtà che sembra deformata come in un quadro di Grosz. Oltre alla condanna dell'uomo all'immaturità, c'è un altro dramma sul quale Gombrowicz pone l'attenzione nel libro: anche la ricerca di una forma, di un sistema che ci permetta di sostanziare le cose e di darci certezze, è destinata a fallire. Non siamo e non potremo mai essere veramente autentici perché non siamo quello che vorremmo essere ma il frutto di un compromesso tra noi e gli altri ed è (e sarà sempre) un compromesso al ribasso.
Aggiungerei che l'immaturità che Gombrowicz identifica come “il” problema, il tratto distintivo dell'uomo dei suoi tempi, è un aspetto che contraddistingue anche la nostra epoca. La differenza è che forse adesso è meno evidente, perché messo in ombra da altre caratteristiche dell'uomo contemporaneo (penso, tra tutte, alla velocità che rende difficile se non impossibile una vera analisi, con tutto ciò che questo comporta), ma riveste comunque carattere di universalità.
Ferdydurke è un libro su cui ho cominciato a lavorare una volta terminata la lettura dell'ultima pagina. E questo, a mio avviso, è un gran pregio.
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