C'è chi è bravo a scrivere romanzi e chi è portato nell'arte del racconto, chi è un maestro a costruire dialoghi e chi è imbattibile nelle descrizioni. C'è poi chi scrive sotto metafora e chi preferisce andare diritto al punto, ci sono quelli dallo stile ampolloso e quelli dalla prosa asfittica, quelli che prediligono argomenti “alti” e quelli che invece preferiscono volare bassi, quelli che descrivono il quotidiano e quelli che immaginano il futuro...
E poi c'era Lui, che sapeva fare tutte queste cose al meglio. Tutte.
Ed altre ancora.
In un unico romanzo.
A ventiquattro anni (ven-ti-quat-tro).
Immagino il narratore come uno che entra nel grande magazzino della scrittura e si aggira tra gli scaffali della forma, del contenuto, dello stile, delle figure retoriche e quant'altro, scegliendo i materiali che gli sono più congeniali per raccontare al meglio la sua storia. Ecco, Lui quando entrava in quel magazzino diventava compulsivo, bulimico. Lui prendeva tutto quello che trovava. E lo utilizzava al meglio. Di più: Lui non si è limitato ad utilizzare l'armamentario dello scrittore, ma l'ha smontato pezzo per pezzo e poi rimontato alla sua maniera. David Foster Wallace ha preso il romanzo, se l'è caricato sulle spalle e poi ha cominciato a camminare. Dove è arrivato quando ha deciso di posare il suo peso non so dirlo, ma credo che l'idea fosse di andare verso il limite, vedere fin dove si potesse spingere.
David Foster Wallace era un Demiurgo. Lui non raccontava (solo) storie, lui costruiva mondi.
E La scopa del sistema rappresenta il suo primo tentativo sotto forma di romanzo.
Personaggi, tanti personaggi, che cadono dentro la storia e cominciano ad interagire. Sono personaggi “strani”, che hanno sempre qualcosa di eccessivo, qualcosa che non va: troppo intelligenti, troppo grassi, troppo insicuri, troppo sicuri, con troppi conflitti (soprattutto) psicopatologici... troppo. Colori che sbavano dai contorni e si mescolano, personaggi che faticano a stare all'interno del loro spazio e tendono a tracimare e a manipolare per cercare di piegare l'altro ai propri bisogni, e nel fare ciò seguono una logica, personalissima e sconclusionata, assurda per chi guarda da fuori, ma pur sempre logica se vista in rapporto a chi la sta sviluppando.
La normalità non esiste, la realtà è fatta di pezzi unici, complicati, contorti, ai quali, nonostante l'apparente umorismo che scaturisce dai loro comportamenti, l'autore sembra guardare con una pietas che mi sembra uno dei tratti fondamentali della scrittura di David Foster Wallace.
Al centro di tutto (se può esistere un centro in un'opera di Foster Wallace) c'è il tentativo di ognuno dei protagonisti di costruirsi un modo per comunicare, per entrare in contatto con gli altri, impresa affatto semplice – per non dire disperata – se si considera che abbiamo a che fare con personalità bizzarre, che parlano lingue diverse e che sono destinati a non capirsi pur avendo bisogno uno dell'altro. Di qui i tentativi, complicati e goffi, di creare un sistema di pesi e contrappesi, di strutture e sovrastrutture, che permettano ad ognuno dei personaggi di essere all'altezza delle proprie o delle altrui aspettative, tante torri di Babele destinate a crollare inesorabilmente.
P.S.: all'interno del romanzo c'è un racconto, Amore, che è uno dei più belli che abbia mai letto e vale da solo l'acquisto del libro.
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