sabato 12 aprile 2014

un giorno, e non finì la frase. Capitolo sesto


Capitolo sesto.
Sui discorsi fatti sul ponte del sole guardando il mare ed immaginando la vita



Dopo un pranzo abbondante non c’è niente di meglio di un riposino ristoratore, queste all’incirca devono essere state le parole usate da Ramon Jimenez per convincere i compagni di viaggio a raggiungere le sdraio sul ponte più alto dell’Highland Monarch, e poco importa se durante la marcia di trasferimento il gruppetto ha perso qualche unità, ci riferiamo all’ingegner de Campos che passando davanti al bar del lido, forse non pago del vinho verde e del Porto con il quale aveva già abbondantemente annaffiato il desco, ha preferito concedersi anche qualche bicchierino di aguardiente. Perdita di poco conto che il resto del plotone ha continuato a marciare compatto ed ora è sul ponte intento a prendere posizione sulle sdraio. E’ una splendida giornata senza nuvole, con un sole che a volergli trovare un difetto è forse un po’ troppo generoso nell’elargire il calore dei suoi raggi, ma non tema il lettore che qualcuno, magari qualche signora dalla carnagione più chiara, corra il rischio di un’insolazione, siamo su un vapore delle Regie Linee, è bene ricordarlo e la Marina britannica è più che attenta a che i passeggeri delle sue navi non abbiano a lamentarsi, è per questo che solerti inservienti sono già intervenuti per sistemare una serie di ombrelloni alle spalle dei nostri amici. La cucina portoghese è tutt’altro che leggera e per chi non è abituato bollito e rognone non sono piatti tanto semplici da smaltire, soprattutto se ad essi hanno fatto seguito una discreta selezione di formaggi di pecora e poi ancora un’abbondante teoria di dolci ai quali la strana comagnia che stiamo seguendo non ha saputo sottrarsi, un po’ per gola, un po’ perché quei nomi fantasiosi come lardo del cielo e ventre di monaca con i quali i camerieri hanno accompagnato la presentazione delle vivande, sembravano messi lì apposta per solleticare la curiosità dei commensali. Sarà dunque colpa del cibo pesante, magari anche della canicola e aggiungiamo pure la stanchezza del viaggio, fatto sta che una volta presa posizione sulle sdraie i nostri amici sembrano voler deludere le nostre aspettative di ascoltare da loro qualche storia interessante per lasciarsi invece andare ad un pisolino ristoratore come aveva proposto Ramon Jimenez. Ad essere sinceri il poeta di Moguer ha cercato di stimolare la conversazione, invitando Jusep Torres Campalans a raccontare qualcosa di più della sua arte, ma si è trattato di un tentativo infruttuoso visto che il pittore catalano sembrerebbe essere salito fin qui solo per educazione nei confronti del resto della compagnia. E’ voce di popolo che i comportamenti, a saperli osservare, dicano più di mille parole, e sedersi in punta di sedia senza appoggiare neppure la schiena, come ha fatto Jusep Torres, è indubbiamente tipico di chi ha fretta, di chi non è intenzionato a fermarsi a lungo. Vox populi vox dei si dice in questi casi, e tanto dovrebbe essere sufficiente a dar credito a quanto stiamo dicendo ma se ci fosse tra i lettori qualche novello San Tommaso che nutrisse ancora dei dubbi sul fatto che il pittore catalano non vede l’ora di abbandonare il ponte del sole, ecco che ai comportamenti fanno seguito anche le parole, quelle parole alle quali tanto peso siamo abituati ad attribuire da non vedere più tutto il resto, La pittura è pittura, solo Dio è in grado di giudicare, la verità è che tutti quelli che discutono di pittura rubano il posto a Dio. Questa la risposta di Campalans alle parole di Ramon Jimenez, niente di scortese, ci mancherebbe, ma frasi secche, sicuramente in linea con il carattere un po’ burbero del personaggio, che chi lo conosce bene sa non essere un gran parlatore, frasi che poco o nulla lasciano alla possibilità di imbastire una qualche forma di discussione. Chi sarebbe, ad esempio, in grado di replicare ad asserzioni del tipo Per dipingere basta avere poche idee, chi ha bisogno di pensare per dipingere non è un pittore, è a furia di pensare che non si riesce più a capire la gente, non di certo Ramon Jimenez, o almeno in questo momento non sembra che il poeta di Moguer voglia impegnarsi più di tanto per ravvivare una conversazione che il suo interlocutore ha fatto chiaramente intendere di voler lasciar cadere. La logica conseguenza di tutto ciò è che dopo poche battute piomba sul gruppo un bel silenzio, premio meritato per gli sforzi del pittore catalano che dopo aver lasciato trascorrere ancora qualche minuto, giusto per non dare l’impressione di squagliarsela troppo di fretta, si è alzato per prendere congedo dal resto della compagnia borbottando qualcosa su certe cose da fare in altro luogo. Non saremo certo noi a biasimarlo, che se ci fermiamo un attimo a riflettere, converremo che in questi i momenti può risultare imbarazzante chiacchierare amabilmente prendendo il sole come se niente fosse. Quello che stiamo vivendo, è giusto ricordarlo al lettore, non è un agosto normale, che il calendario recita millenovecentotrentasette, la Spagna è incendiata da una guerra folle, nel resto dell’Europa si respira un’aria che definire pesante è un eufemismo e strani fermenti agitano anche terre più lontane come quelle verso le quali stiamo navigando. E’ come se ci fosse una specie di virus, un morbo che si diffonde con contagio rapidissimo per tutto il globo, un virus che porta odio e morte, che spinge i fratelli ad uccidere i fratelli, una epidemia cieca alla quale non sembra esserci rimedio, una peste già apparsa nel corso della storia sotto forme diverse e con scadenze irregolari, una peste contro la quale l’uomo non sembra poter o voler fare niente. Ragioni più che sufficienti, come si vede, per spingere Jusep Torres Campalans ad abbandonare il ponte del sole, nessuna antipatia nei confronti dei compagni di viaggio, ci mancherebbe, solamente che quando si è trovato là in cima si è sentito improvvisamente a disagio, lui anarchico, payès, figlio di contadini, a viaggiare in prima classe mentre in terza c’è gente che soffre, che suda e che fatica ad inventare un domani da far seguire all’oggi. Ci par già di sentire la voce di qualche solone, pronto a ricordarci che questa è la vita e da nessuna parte è scritto che essa debba essere giusta od anche solamente logica, la vita è quello che è, un grande mare nel quale ci tocca destreggiarci prendendo ora la bonaccia ed ora la tempesta, un mare da navigare senza pretendere di riuscire a capirlo. Tutto vero, come negarlo, solo che dobbiamo confessare come ci sia una leggera differenza tra affermare certe cose ed esserne convinti fino in fondo, che se davvero riuscissimo ad avere un briciolo di quella saggezza che predichiamo forse sapremmo anche accettare i limiti insiti nella nostra natura di uomini un po’ più facilmente. Il fatto, come ci è già capitato di dire in precedenza, è che nonostante le buone intenzioni non siamo fatti di sola ragione ma anche di emozioni, quelle stesse emozioni che spingono Jusep Torres ad infiammarsi per un nonnulla non appena sente parlare di giustizia, che guidano Ramon Jimenez nell’inseguire la verità della poesia e più in generale ognuno di noi nel cercare di assecondare i progetti del suo daimon. Emozioni, croci e delizie della nostra vita, in grado di saltare fuori dal nulla come Erinni, per distruggere in un attimo progetti costruiti con tanta pazienza, emozioni simili a cani al guinzaglio che fatichiamo a tenere a bada perché ci tirano in tutte le direzioni, o magari, come nel caso del giovane dottor Lupi, simili ad un gatto un po’ vivace così difficile da costringere in casa quando decide di farsi una passeggiata all’aria aperta. Non vorremmo però che dalle nostre parole sembri che il pittore catalano sia l’unico su questa nave ad avvertire l’inquietudine del momento storico che stiamo vivendo, per sgombrare il campo da equivoci ci preme aggiungere che il pensiero della guerra è ben presente anche alle coscienze dei suoi compagni di viaggio ed anzi, proprio le sue ultime parole, quel E’ a furia di pensare che non si riesce più a capire la gente, ronzano ancora nella mente di Ramon Jimenez, che attraverso uno di quegli indecifrabili percorsi che seguono le idee è tornato col pensiero ad un mese fa, a quando i vescovi spagnoli avevano dichiarato il loro appoggio ai nazionalisti mentre gli intellettuali di mezzo mondo, riuniti in un congresso per la difesa della cultura esprimevano sostegno alla repubblica. Grande è la confusione sotto il cielo, quando si finisce per parlare di politica si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una matassa che ogni volta che la si prende in mano si aggroviglia sempre più, soprattutto se si è un poeta come Ramon Jimenez che non riesce a guardare alla guerra se non con gli occhi di un idealista, che vede la buona fede nelle azioni di tutti e che è convinto che il dialogo sia la medicina migliore in grado di ripianare tutti i contrasti. O quasi, aggiungiamo noi, che se Ramon Jimenez e Zenobia Camprubì Aymar si trovano su questa nave lo devono proprio al fatto che la medicina nella quale tanto confida il poeta di Moguer non sembra essere la più adatta per curare una malattia così grave come la guerra civile. E visto che abbiamo parlato di disagio delle coscienze, finiremo il nostro giro di orizzonte raccontando quello della ragazza portoghese dal collo lungo e sottile, che in questo momento sembra provare qualcosa di molto simile al senso di colpa per il fatto di lasciarsi carezzare dal sole su una sdraio di prima classe mentre il vapore delle Regie Linee la sta portando lontano dalla guerra. Nessuno si sognerebbe di accusarla di indifferenza, che non è stata certo la voglia di divertimento a farla salire sull’Higland Monarch, eppure lei non può fare a meno di avvertire imbarazzo per il privilegio che si trova a godere rispetto a tanti suoi coetanei. Sono momenti di grande confusione per tutti, forse è per questo che sotto forme diverse si affaccia alla mente dei nostri compagni di viaggio una domanda che ci eravamo posti anche in precedenza, Perché succedono le cose che succedono, qual’è, se esiste, il disegno di chi tutto dirige. L’impressione che si ha è quella di aver perso la bussola, ci sia perdonata l’irriverenza, ma è come se il Grande Timoniere che fino a questo momento ha governato la barca della storia si sia preso una vacanza senza curarsi del fatto che l’imbarcazione sta andando alla deriva. Se Marcenda da un lato è riconoscente della fortuna di cui gode, dall’altro si chiede perché è capitata proprio a lei, perché lei si trova in viaggio verso Rio de Janeiro mentre qualche sua coetanea sta ancora piangendo i familiari persi sotto le bombe di Guernica, come è possibile sorseggiare una tazza di the al tavolino di un ponte di prima classe proteggendosi dal sole con un ombrellino colorato fingendo di non vedere la scia di sangue che si allunga alle nostre spalle. Domande, ancora domande, destinate a rimanere senza risposta visto che a quanto pare Ananke, la dea preposta ad esaudire la nostra curiosità, in questo momento sembra in tutt’altre faccende affaccendata e forse quando si deciderà a degnarci della sua attenzione altri quesiti avranno preso il posto di quelli che ci assillano ora.

A volte le sorprese arrivano da dove meno ci se lo aspetta, è normale, altrimenti non si chiamerebbero sorprese o per dirla con Sancio Panza, per dove meno se l’aspettano salta la lepre, sia come sia, nessuno avrebbe immaginato che a spezzare questo silenzio del quale ognuno sembra aver approfittato per chiudersi in meditazioni personali, potesse essere proprio il giovane dottore italiano. E’ il dottor Lupi che approfittando della vicinanza tra le loro sdraie, e considerando che il silenzio dei coniugi Jimenez sembra indicare che stanno riposando, trova il coraggio per abbassare il libro che tiene in grembo e domandare a Marcenda se in biblioteca ha avuto modo di leggere qualche poesia del dottor Reis, Sì, qualcosa ho trovato, risponde lei sorridendo, e devo dire che mi ha fatto uno strano effetto scoprire che dietro a quello che conoscevo come un serio dottore dedito solo alla professione albergasse un animo poetico, E come le sono sembrate le sue poesie, E’ difficile dire, è così poco quello che ho potuto leggere che non ho avuto modo di formarmi un’opinione vera e propria, E un’impressione, una prima idea se l’è fatta, Se devo dire la sensazione è che siano pervase da tanta malinconia, come se il dottor Reis avesse paura di lasciarsi andare fino in fondo, per farle un esempio, le odi che ho letto mi hanno fatto pensare ad uno che pur amando le rose preferisce evitarle per paura di pungersi con le spine, non saprei dire meglio, quello che mi è sembrato di leggere è il tormento di un uomo che sembra amare la vita ma preferisce osservarla dalla finestra perché ha troppo paura di viverla, ma forse mi sbaglio, probabilmente queste sono solo sciocchezze, non faccia caso a quello che sto dicendo, No tutt’altro, dice Lorenzo, per quanto poco conosca l’opera di questo autore, devo dire che anch’io dalle liriche che ho letto ho ricavato le sue stesse impressioni, lo stesso senso di disagio, E dell’ingegner de Campos che mi dice, domanda Marcenda spostando il discorso, confesso che questa mattina mi ha incuriosito alquanto e mi domandavo come potessero essere le sue poesie, lei che le ha lette saprà certamente dirmi se sono simili a quelle del dottor Reis o se ne differenziano, E’ una domanda così difficile che mi permetterà di cavarmela con una battuta dicendo che forse le ha risposto lui stesso quando a colazione ha detto che mentre il dottor Reis metteva le emozioni al servizio dell’idea lui fa l’esatto contrario, Mi incuriosisce, vedrò di colmare le mie lacune cercando in biblioteca anche qualche sua poesia, credo che sarà interessante mettere a confronto due modi cosi diversi di vedere la vita, A dire il vero non so se siano modi di intendere la vita o solo di raccontarla, frena il giovane dottore, per conto mio devo dire che trovo che sia quasi impossibile dare una definizione dell’Alvaro de Campos poeta, è un fiume in piena, un vulcano in eruzione continua, dalla cui bocca può uscire tutto e il suo contrario. E lei, domanda Marcenda con malcelata curiosità, anche lei scrive poesie, mi scusi se le sembro indiscreta ma quando ne parla sembra così appassionato che non posso fare a meno di domandarglielo, No, no, risponde lui arrossendo, assolutamente no, poesie io, ci mancherebbe, non sono davvero in grado. Via, non si schernisca troppo, interviene Ramon Jimenez che probabilmente non sonnecchiava ma ascoltava in silenzio, non c’è niente di male nello scrivere poesie, e poi, a quanto sembra, su questa nave ci sono così tanti artisti che uno più od uno meno non farebbe una gran differenza, Quello che volevo dire è che non basta amare la poesia per farla, dice il dottor Lupi cercando di precisare meglio il suo pensiero, per essere un vero poeta ci vogliono delle doti particolari che io sinceramente non credo di avere e piuttosto di rendermi ridicolo scrivendo brutte poesie credo sia meglio leggere quelle degli altri, Ecco tornare il dottor Lupi timoroso, quello che vede minacce alla sua intimità anche dietro l’apparente banalità di un’osservazione buttata lì in maniera scherzosa. Un punto di vista rispettabilissimo, osserva il poeta di Moguer, ci mancherebbe, in realtà ascoltando le sue parole devo dire che lei sembra abbastanza somigliante al ritratto che la nostra giovane amica ha appena fatto di Ricardo Reis, Sarà che sono tutti e due medici, scherza Marcenda, Può essere, ma nel caso del dottor Reis questo non gli ha impedito di essere anche un grande poeta, aggiunge argutamente Ramon Jimenez.
Diremo qui che, nonostante sia intervenuta più volte nelle discussioni esibendo sempre una buona disinvoltura, Marcenda è soprattutto quel che si definisce una buona ascoltatrice, come potrebbero testimoniare le tante amiche che ha lasciato a Coimbra e dei segreti delle quali è fedele depositaria. Ci sono persone che ispirano immediata fiducia, e Marcenda è una di queste, ma ciò non vuol dire che la ragazza dal collo lungo e sottile sia una specie di crocerossina pronta ad accorrere ovunque ci sia bisogno di lei, Marcenda tende a selezionare le amicizie, come è normale che sia, ed è incuriosita in particolare dalle persone un po’ timide, introverse, perché le sembra che siano quelle che più di altre possaoo avere qualcosa da raccontare e perché crede che sia più stimolante scoprire poco a poco di una persona, lasciando che ogni giorno sveli una nuova tessera del mosaico che si dovrà comporre. Non è chiaro da cosa Marcenda tragga questa impressione, diciamo che è colpa o merito dell’intuito femminile, di quel quid che nessuno sa ben dire cosa sia e che tutti chiamiamo in causa quando vogliamo spiegare perché le donne siano un po’ maghe ed un po’ streghe. Per chiudere il cerchio aggiungeremo che tra i passeggeri dell’Highland Monarch quello che si avvicina di più all’identikit cdel timido introverso he abbiamo appena tratteggiato è il dottor Lupi, che con i suoi comportamenti difensivi non ha mancato di attirare l’attenzione della ragazza portoghese. Povero Lorenzo, lui crede di alzare una cortina di nebbia per rendersi invisibile agli altri ed ora si scopre che sul vapore delle Regie Linee c’è una ragazza attratta proprio da questa nebbia, se qualcuno cerca di nascondere qualcosa è perché ha qualcosa da nascondere, pensa Marcenda, e più difende il suo segreto e più questo deve essere prezioso, sia esso costituito da storie di vita, sogni o fantasie. Ed auguriamoci allora che prima o poi questo timido dottore italiano la smetta di difendersi e si lasci un po’ andare, che non succeda come per l’altro dottore, quel Ricardo Reis che Marcenda ha conosciuto ma solo per un tempo troppo breve, sufficiente per capire che dietro il medico doveva esserci qualcos’altro, ma non per poterne apprezzare le virtù come poeta. Se è vero che, come si dice dalle parti del dottor Lupi, Roma non fu fatta in un giorno, anche da lui non dovremo aspettarci che si dimostri affabile ed intraprendente in un batter d’occhio. La nostra impressione è che valga la pena concedergli un po’ di fiducia, considerando positivo il fatto che sia riuscito ad accorciare le distanze, avvicinando Marcenda ed iniziando la discussione. Per ora accontentiamoci, è già qualcosa, il resto forse verrà, anche se più lentamente di quanto voremmo, se è vero che proprio mentre stiamo dicendo queste cose il giovane dottore italiano si è alzato dalla sdraio per accomiatarsi dal gruppo con la più banale delle scuse e cioè dicendo che ha bisogno di fare due passi, aggiungendo che più tardi sarebbe tornato sul ponte. Certamente il vedersi accostato al dottor Reis ha provocato in Lorenzo un po’ di imbarazzo, ma a spingerlo ad abbandonare la compagnia è stato soprattutto il bisogno di stare solo, un misto di lentezza e di riservatezza nell’elaborare le informazioni che gli vengono dall’esterno che fa sì che il nostro amico si comporti a volte come un animale selvatico che una volta catturata la preda la trascina nella tana per dedicarvisi in tranquillità, certo la preda del dottor Lupi è perlomeno anomala, perché costituita da parole udite e sensazioni accumulate, ma tant’è, non siamo qui per fare le pulci ai comportamenti della gente. Per spiegare qualcosa di più del giovanotto italiano aggiungeremo che il libro che si è portato sul ponte, non sappiamo quanto per leggerlo veramente e quanto per difendersi dagli altri, è un’opera di un suo compatriota che di questi tempi va per la maggiore, Luigi Pirandello il nome dello scrittore ed I sei personaggi in cerca d’autore il titolo del libro. Diciamo questo perché il ragazzo ci sembra proprio un personaggio in cerca d’autore, ci perdoni la franchezza, uno che deve ancora trovare la sua strada nella vita e che ha bisogno di chiarire prima di tutto a se stesso quello che vuole. Certo considerando le sue letture, da Rilke a Pirandello con qualche puntata nelle opere dell’ingegner de Campos, il rischio è che più che trovare la strada maestra finisca per perdere completamente l’orientamento, come qualcuno che forse gli voleva bene non mancò un tempo di fargli osservare, ma è pur vero che a volte è necessario perdere la strada per provare il piacere di ritrovarla e in fondo il dottor Lupi non è l’unico ad essere impegnato in questa ricerca, che in realtà si potrebbe dire che personaggi in cerca d’autore li siamo un po’ tutti, che se ci pensiamo bene il nostro passaggio terreno è volto a cercare di capire che cosa ci facciamo qui ed a cosa siamo destinati. A pensarci bene personaggi in cerca d’autore sono sicuramente Marcenda, Alvaro de Campos e Jusep Torres Campalans e magari, per certi versi, potrebbero esserli anche Ramon Jimenez e Zenobia, e noti il lettore la coincidenza di come quando si siedono al tavolo del pranzo e della cena insieme al dottor Lupi le persone che abbiamo appena nominato raggiungano il numero di sei proprio come i personaggi di Pirandello. Sicuramente qualcuno, magari avezzo alle buone letture, vorrà obiettare che in fondo questi signori l’autore l’hanno trovato, e magari più di uno, che chi ha raccontato le loro storie c’è già stato in passato e c’è anche ora, qualcuno altro con il gusto del paradosso potrebbe osservare, non senza ragione, che proprio il dottore italiano, dal quale siamo partiti per intraprendere questo contorto ragionamento, è l’unico che non ha bisogno di autore e che anzi l’autore di tutta la storia che stiamo raccontando è lui, ma forse è meglio se ci fermiamo qui perché rischiamo di confondere quei pochi lettori che ci hanno seguito fin qui. Per mettere fine a questa giostra di opinioni non mancherà chi interverrà sostenendo con arguzia che quello che conta è capirsi sul significato da dare alle parole, che essere in cerca d’autore è espressione solo in apparenza cristallina ma in realtà quanto mai equivoca e che si può leggere in tante maniere, forse troppe, tante che ognuno potrebbe finire per usare questa frase per portare acqua al suo mulino. Ci fermiamo qui, che crediamo di aver abusato abbastanza della pazienza del lettore protraendo anche troppo questa riflessione e sconfinando in terreni che non ci appartengono. L’ultimo pensiero che ci concediamo prima di tornare alla narrazione è che queste ultime parole hanno rafforzato la nostra convinzione che gli strumenti lessicali che l’uomo impiega, le metafore, le allusioni, i doppi e tripli e quadrupli sensi, il tono della voce, ed ancora altri mille e mille e mille piccoli accorgimenti apparentemente privi di importanza, siano come scialuppe di salvataggio, tante uscite di sicurezza che egli dissemina lungo il suo percorso a bella posta, per dire e non dire quello che pensa, per lasciarsi la possibilità di cambiare idea, di tornare sui suoi passi senza farlo sembrare una contraddizione. Nessuna scoperta sconvolgente, la torre di Babele è sempre esistita e sempre esisterà, non tanto per questioni di linguaggi diversi, che queste sono differenze che con un po’ di buona volontà si potrebbero anche superare, quanto perché sono gli uomini che scelgono volontariamente di non farsi capire fino in fondo, magari perché sono loro per primi a non capire se stessi, o molto più probabilmente perché non vogliono neppure provare a farlo.
Dopo aver lasciato il ponte del sole, il dottor Lupi è tornato nella sua cabina. Lo sorprendiamo seduto sul letto con un taccuino in mano ed una penna in bocca che ripensa a quelle parole di Marcenda, E lei, anche lei scrive poesie. Colpito ed affondato, che certo che sì, che anche il giovanotto italiano scrive poesie o almeno ci prova, ma solo per lui, che si vergognerebbe a morte a farle leggere a chicchessia. Ecco spiegati il rossore e l’imbarazzo all’udire la domanda della ragazza dal collo lungo e sottile, si era sentito scoperto, proprio come un bambino pescato con le mani nel vasetto della marmellata. Niente di male, sia chiaro, che non è trascorso molto tempo da quando abbiamo visto altri illustri compagni di viaggio del dottor Lupi affermare di aver smesso con la pittura e con la scrittura e poi dimostrarci l’esatto contrario, ragion per cui se ora scopriamo che anche il giovanotto italiano ha un giardino privato che cerca di proteggere dalla curiosità degli altri non ci meravigliamo, ma anzi proviamo solo tenerezza. Ci scusi perciò l’amico italiano per aver fatto intrusione nella sua cabina ed aver violato la sua intimità, ci ritiriamo in silenzio, magari tornando sul ponte, dato che prestare orecchio a ciò che succede alla luce del sole è attività un pò meno sconveniente che sbirciare nelle cabine dei passeggeri dell’Higland Monarch.
Come è diverso questo viaggio da quello di vent’anni fa, sta dicendo Ramon Jimenez alla moglie, allora c’era il sapore dell’avventura, della scoperta, non sapevo cosa sarebbe successo al mio arrivo a New York, quale sarebbe stata la tua accoglienza e quella della tua famiglia, mi sentivo come uno che si arrampica lungo una fune della quale non vede l’altro capo, nelle mie aspettative avrebbe dovuto portarmi fino a te, ma non avevo alcuna certezza sul buon esito dell’impresa, Come vedi i tuoi sforzi sono stati premiati, risponde Zenobia sfiorandogli il dorso della mano, a volte mi domando cosa sarebbe stato delle nostre vite se tu non fossi stato tanto caparbio nel superare ogni ostacolo che si frapponeva tra noi due, certo, aggiunge sorridendo, vent’anni fa eri molto più giovane e temerario, Era il fascino dell’ignoto, continua lui, qualcosa che anche se un po’ ti intimorisce ti attrae a tal punto che non puoi tirarti indietro, un cammino nella foresta dell’incertezza avendo come unica guida la stella dell’amore, Chissà quanti pensieri devi aver avuto durante la traversata dell’Atlantico, devo confessarti che se da un lato mi sento in colpa per averti costretto a raggiungermi in America, dall’altro mi lusinga sapere che ti sei imbarcato in un viaggio così lungo per dimostrami il tuo amore, La cosa più pesante da sopportare è stata la solitudine, due settimane in compagnia dei propri dubbi possono essere lunghissime, ed io per non impazzire mi ero scelto come confidente il mare, tutte le sere mi affacciavo alla balaustra ad interrogare le onde perché mi dessero un segno, perché mi dicessero in anticipo quello che sarebbe successo, Vedo che gli anni passano ma il mare non cessa mai di ispirarti, Già, è così, risponde lui sospirando, il mare è l’inizio e la fine di tutto, sempre uguale e sempre diverso, la mer, la mer, toujours recommencée, come diceva il poeta. E Marcenda, ci chiediamo, sta forse dormendo. No è sdraiata ad occhi chiusi sulla sua sdraio che con un orecchio ascolta i ricordi dei coniugi Jimenez mentre fantastica su come sarebbe bello se nella vita le cose potessero andare come sulla nave. Se ci si potesse sempre lasciare tutto alle spalle con una semplice partenza, come sarebbe bello veder svanire le cose brutte abbandonandole sul molo di partenza, come sarebbe bello dimenticarle completamente sapendo che al porto d’arrivo troveremmo solo belle notizie ad accoglierci. E la sensazione di farsi trasportare, di non dover fare nessuna fatica almeno per un po’ di tempo, la sicurezza di essere in mani solide, su di un piroscafo che si prende cura di noi e che almeno per un po’ ci esenta dalle responsabilità. Pensieri puerili quanto si vuole, ma non dimentichiamo che Marcenda è una ragazza di venticinque anni con una mano paralizzata, che piange ancora la scomparsa della mamma e che si trova per la prima volta ad affrontare un viaggio per mare da sola, ragioni più che sufficienti a nostro avviso per concedere anche a lei di sognare un po’ ad occhi aperti.
Quando Lorenzo torna sul ponte del sole le sdraio sono vuote. Le poche persone rimaste sono affacciate alla balaustra dove sembra regnare una strana agitazione, chi indica un punto in mare, chi chiama un amico, chi si sposta da un parapetto all’altro, anche Marcenda è tra loro ed il giovane dottore non tarda a raggiungerla, Cosa succede, Hanno avvistato una balena, credo, Dove, Laggiù, Non vedo nulla, Aspetti, dovrebbe emergere fra poco, Là, ecco, vede, guardi nella direzione del mio dito, lo vede lo sbuffo di acqua, Sì, ma è lontano, Prima era più vicina poi deve essersi spaventata, ed ora si sia allontanando. Svanita la balena all’orizzonte Lorenzo e Marcenda ritornano alle sdraio, la ragazza è ancora eccitata per l’avvistamento, Non avevo mai visto una balena prima di oggi, era bellissima, così grande, devo confessarle che un ho anche avuto un po’ di paura, dice lei con le gote ancora arrossate per l’emozione, Dicono che sia frequente avvistare balene o delfini durante le traversate atlantiche, dice lui, E lei, le ne ha mai visto una prima di allora, No, però mi ricorda un episodio accaduto pochi mesi fa alla Spezia, dove vivo, anche lì fu avvistata una balena, fatto strano perché solitamente non si spingono mai sottocosta, Davvero, racconti la prego, sono curiosa di sentire tutta la storia, Un mattino qualcuno disse che c’era questa balena proprio davanti a Portovenere, si pensò ad uno scherzo, ma quando altri confermarono la versione si raccolse una discreta folla sul molo, si pensava che il giorno dopo la balena sarebbe scomparsa come era arrivata ma non fu così, giorno dopo giorno la gente accorreva a vedere quella che sembrava essere una vera attrazione, ci si chiedeva come mai fosse finita lì, ma soprattutto cosa fare. Le autorità decisero che probabilmente aveva perso l’orientamento e che sarebbe stato bene aiutarla ad uscire di lì prema che finisse per arenarsi sulla spiaggia, nulla da fare marinai e corpi speciali non riuscirono a convincerla ad abbandonare le acque del golfo, più sforzi facevano e più il cetaceo sembrava prendersi gioco di loro. Si immagini la scena, uomini scelti della valorosa Marina Militare italiana presi in giro da una balena che risultava tanto agile e scaltra quanto loro goffi ed impacciati, il tutto con un pubblico da stadio raccolto sulla banchina a fare il tifo per il grande cetaceo. Si disse che dal Duce in persona venne l’ordine perentorio di abbattere la balena, non potendo sopportare oltre il danno di immagine che il goffo mammifero stava arrecando al governo fascista. Niente da fare, quasi presaga di quello che era stato deciso la balena fece perdere le sue tracce e non se ne seppe più niente. La cosa che mi incuriosì di tutta la vicenda fu però come venne trattata dalla stampa ed anche dalla gente del posto. Tutte le ipotesi sul perché la balena fosse finita nel canale di Portovenere erano incentrate sul fatto che fosse malata o ferita o che avesse perso l’orientamento o che fosse alla ricerca di un posto per morire, A nessuno è venuta l’idea che magari aveva scelto di venire lì piuttosto che andare da un'altra parte, chiede Marcenda, Già è questo il punto, dice Lorenzo, ho pensato anche in seguito a questo episodio e mi sono convinto che in fondo la storia della balena può essere considerata come una sorta di metafora di quello che succede tutti i giorni, quando uno esprime opinioni non in linea con il pensare comune, allora si ritiene che sia malato. Il malato è il diverso, chi non è come noi, e che per questo ci fa paura e quindi è da respingere, rinchiudere, la mela marcia da allontanare dal resto della società affinché non la contagi. Nel caso della balena dovevamo sapere perché era lì, ed il non avere certezze sul perché del suo arrivo ci portava a fare congetture di qualsiasi tipo. Non abbiamo l’umiltà di accettare il fatto che non abbiamo spiegazioni per ogni fenomeno e questo ci disturba, secondo il pensare comune tutto deve essere illuminato dalla ragione perché laddove esistono delle zone buie lì possono nascere i problemi. Non ci accontentiamo mai, non accettiamo i nostri limiti e se qualcosa sfugge alla nostra comprensione allora vuol dire che è sbagliata. Davvero una strana società la nostra, a volte mi è anche difficile riconoscermi in essa.
Complimenti a Marcenda, anche questa volta l’intuito femminile non ha tradito le attese, è bastato attendere anche meno di quello che credevamo per ascoltare dalla bocca del dottor Lupi una storia interessante. A questo punto il giovanotto italiano sembra aver rotto il ghiaccio e se il buongiorno si vede dal mattino ci auguriamo che ci possa fornire altri spunti stimolanti nel proseguo del viaggio. 

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