lunedì 2 giugno 2014

Aimee Bender – L'inconfondibile tristezza della torta al limone


Bel romanzo della Bender che conferma tutto quello che di buon aveva lasciato intuire con “Un segno invisibile e mio”. Anche qui ritroviamo un storia raccontata secondo i canoni del realismo magico, con l'inserimento di un elemento fantastico (i “superpoteri” di alcuni dei membri della famiglia Edelstein) all'interno della realtà. 
Nonostante i tanti (troppi?) luoghi comuni (la crisi della famiglia della middle-class americana, la madre frustrata, il padre poco comunicativo, il figlio genio dal comportamento disfunzionale, la figlia-bambina che si comporta con più maturità degli adulti...), la Bender dimostra di sapersi muovere con maturità e sicurezza, gestendo bene i rapporti tra i personaggi, senza appiattire la narrazione sulla protagonista ma sviluppando anche le altre figure e soprattutto mantenendo la difficile misura tra l'elemento fantastico e quello reale, il tutto raccontato con un tono leggero, a tratti poetico o malinconico e che riesce a governare gli sviluppi della trama senza eccedere mai, senza andare sopra le righe e che per certi versi mi ha ricordato Murakami. 
E qui ci si potrebbe anche fermare. 

Ma il fatto è che questo, per me, è uno di quei libri. E io ci sono finito dentro calzato e vestito, come in una buca (per continuare il paragone con Murakami), e allora la cosa cambia perché quando il ragionamento si sposta sul piano emotivo i giudizi e le valutazioni assumono un carattere aleatorio, personale, sul quale diventa difficile confrontarsi. 
Se mi trasferisco dall'altra parte dello specchio, “l'inconfondibile tristezza della torta al limone” diventa una di quelle storie che appena le hai finite già ti mancano, di quelle che vorresti che tutti i tuoi amici le leggessero, che ti fanno guardare agli altri con più indulgenza e che ti lasciano dentro quella specie di struggimento che è inutile che mi sforzi di descrivere (che ci ho già provato più volte e non ci sono mia riuscito). Perché la storia di Rose è la storia di una ragazzina che comprende come il suo “superopotere” non sia una condanna ma una possibilità per capire gli altri e quindi capire/accettare anche se stessi, ma è soprattutto una metafora. 
Ognuno di noi è un unicum, diverso da tutti gli altri e sta a noi accettare o meno la nostra peculiarità, senza cercare di metterla da parte per paura di non saperla gestire (come fa il padre di Rose) e stando attenti a non lasciarsene travolgere (come succede a Joseph, suo fratello). 
Rapportarsi con il mondo, con le cose, con gli altri, può non essere così semplice come sembra: nel libro tutti vanno per la loro strada, faticando a comunicare davvero tra di loro perché troppo impegnati a seguire i propri bisogni e poco disposti ad ascoltare gli altri, e per questo condannati ad una vita incompleta, fatta di compromessi, rimpianti, insoddisfazioni, tanto che forse, alla fine, l'unica davvero pacificata è Rose. 
La sensibilità – sembra dirci la Bender – può essere sia un dono che una condanna, spetta a noi decidere che uso farne.

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