sabato 7 giugno 2014

Costa de Posa (Volastra), 5.40 del mattino


La prima cosa della quale avevo sentito la nostalgia, una volta arrivato a Milano, non era stata la famiglia e nemmeno gli amici ( del resto non è che fossi quel che si dice un compagnone e più che amici veri e propri avevo qualche conoscente, compagni di scuola, frequentazioni saltuarie). La prima cosa che mi era mancata era stata la Costa. 
Ma non in senso lato, non la Costa intesa come posto del cuore del quale si sente l'assenza appena ci se ne allontana, non la Costa come “idea”, quasi più sentimento che luogo vero e proprio. No, ciò che mi era mancato era qualcosa di ben definito, una combinazione di spazio e tempo precisa.
Mi era bastata poco più di una settimana a Milano per sentire, fortissima, la nostalgia della Costa de Posa alle 5.40 del mattino in uno di quei giorni in cui la primavera si approssima a diventare estate. 
Una di quelle mattine in cui uscivo di casa prestissimo con la scusa di andare nell'orto e invece me ne stavo lassù da solo a guardare il mare, ad ascoltare il silenzio e i suoi rumori. 
A quell'ora non c'erano voci, né di uomo né di animali, solo il suono lontano delle onde e quello di un alito di vento che soffiava tra gli alberi. E poi c'ero io, che cercavo di accordarmi più possibile alla natura, seduto sull'erba, sforzandomi di restare immobile, di mimetizzarmi con quello che mi stava intorno, come se potessi assorbire almeno una parte di quella magia, come se potessi sciogliermi dentro di lei. 
Ma non ci riuscivo mai, c'era sempre qualcosa che mancava, che mi sfuggiva. Un movimento, un respiro, un pensiero che mi distraeva. Era come su tutte le volte lei mi riconoscesse e non mi lasciasse entrare in sintonia completa, come quando da bambino giocavo a nascondino e quando credevo di aver trovato un nascondiglio perfetto c'era sempre un movimento che mi tradiva, che mi faceva scoprire. 
Quei mattini che duravano sempre troppo poco, con la luce del giorno che all'inizio si stendeva sulla Costa languida, pigra come un gatto che si stira e poi accelerava senza preavviso e di colpo era giorno pieno, con l'esplosione di colori ed il risveglio di voci che mi richiamavano ai miei impegni. 
Una specie di sogno interrotto, di ricerca continua di una sintonia impossibile, un castello di carte che cadeva ogni volta che credevi di aver messo l'ultimo tassello, un castello di sabbia costruito con cura e pazienza che l'onda cancellava con un soffio. Un castello che poi il bambino costruiva di nuovo. Una, due, tre volte. Sempre, all'infinito. Perché era così che doveva andare.

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