Il
mondo era davvero una specie di paravento…
Cosmo è un romanzo da prendere con le molle.
Gombrowicz
gioca a nascondersi e lo fa travestendo da farsa il dramma, mettendo in scena una
scombinata investigazione “simil-poliziesca” figlia della noia di due giovani
amici, che dovrebbe indurre al riso se non celasse il tentativo folle e
disperato di indagare tra le pieghe del caos con gli strumenti della logica per
scoprire le leggi che lo regolano. Il tutto espresso attraverso una scrittura
che definirei “lussureggiante”, lontana mille miglia dal grigiore e dagli altri
stereotipi della narrativa polacca.
Una
passeggiata, allucinata e allucinante, di due fuori-di-testa, che cercano di trovare
un senso nelle cose che un senso non hanno. Così, in estrema sintesi, potrebbe
essere riassunta la trama del romanzo.
Indagare l’ordine
delle cose, dunque. Con la certezza di trovarci, alla fine, con un pugno di
mosche in mano, perché quello che riusciremo ad individuare sarà sempre uno
degli infiniti ordini possibili, un ordine arbitrario, utile solo a noi per
poter andare avanti, per cancellare possibili zone buie dal nostro percorso. E qual
è lo strumento che utilizzeremo per svolgere il nostro compito? La logica, la vecchia,
cara e usurata logica, che chiamata a confrontarsi con la natura finirà per
mostrare tutti i suoi limiti. Troppo comodo aspettarci che sia lei a fare tutto
il lavoro, sarebbe anche poco divertente. La logica può accompagnarci fino ad
un certo punto, ma quando si arriva alle colonne d’Ercole lei si ferma e se
vogliamo andare oltre ci tocca salire sulla barchetta di Ulisse e metterci alla
prova confrontandoci con l’ignoto. Togliamo pure i se: andare oltre è obbligatorio, non possiamo non farlo, dobbiamo trascendere
la nostra natura perché trascendere è
la nostra natura.
Witold e Fucsio
non fanno eccezione: non riescono a sottrarsi al compito che si sono dati di conferire
un significato alle cose, di scoprire cosa il mondo cela dietro il suo
paravento, di indagare il caos provando ad interpretarlo. Interessante notare
come l’autore sottolinei il fatto che la loro sia un’indagine che nasce dalla
noia e dalla solitudine, dal sentirsi esclusi uno dalla famiglia e l’altro dal
datore di lavoro.
Cosmo è romanzo con i piedi ben saldi nel
passato (e “ben saldi” può a ben diritto essere considerato un eufemismo,
riferendoci qui al fatto che i due squinternati amici presentano più di un
tratto in comune con il Cavaliere dalla Trista Figura…) e lo sguardo che apre
ad un futuro quantomeno problematico (penso all’esistenzialismo e al teatro
dell’assurdo): dopo il passaggio di Gombrowicz, quello che rimane sul campo sono
solo macerie, una frammentazione della realtà, la parcellizzazione di tutto ciò
che ci circonda. Ed è un processo irreversibile.
Witold è come
noi, e noi come Witold ci aggiriamo spaesati per quel che resta del mondo alla
ricerca di segnali, credendo di
comprendere le cose e di seguire un filo logico. Ingannandoci però, perché quel
filo che stiamo seguendo è solo uno dei mille fili possibili, che aprono mille
porte dietro alle quali ci sono altre mille porte e così via… E, come se non
bastasse, ognuno di noi è solo (ritorna la solitudine come molla della ricerca
di Witold) e prigioniero del suo mondo, di quel mondo che ha plasmato piegando
le cose interpretandole secondo i suoi bisogni.
C’è poco da
stare allegri: altro che farsa, qui ci troviamo nel pieno del dramma dell’uomo
moderno! Gombrowicz è perfettamente consapevole del fatto che, inevitabilmente,
un’analisi così impostata non potrà che condurre al cul-de-sac dell’inazione,
alla paralisi, e per questo propone una via d’uscita, letteraria se non
filosofica: l’azione. Il movimento è l’unico appiglio al quale possiamo provare
ad aggrapparci, necessario per svelare l’inganno di un’analisi basata su
congetture, quindi parziale, quindi inutile. L’azione crea la realtà, quella
personale, quella di ognuno di noi (ma se la realtà deve essere creata, allora
forse non esiste e così agendo si finisce per aggiungere altra confusione…).
Parere
personale: credo che un posticino tra i grandi del Novecento, Gombrowicz se lo
sia ampiamente meritato.
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