"Nessuno
protestava, ci avevano fatto tutti l’abitudine."
Piccola apocalisse è un libro
sull’approssimarsi della fine del mondo, tema che Konwicki finge di voler “sterilizzare”
riconducendolo a una dimensione intima, quella del protagonista del libro, mentre
nei fatti oggetto della sua attenzione è quel mondo che sembra andare (o essere
già andato) in frantumi sia di qua che di là dal muro.
Protagonista
del romanzo è uno scrittore che ha da tempo perso la fiducia nella parola
scritta e guarda alla vita con disillusione: nulla sembra avere significato, agire
è compiere azioni stereotipate, vivere è camminare sulle macerie di una guerra
(la seconda guerra mondiale) che ha spazzato via tutto quello che ha incontrato
sulla sua strada: cultura, moralità, principi, idee… precipitando l’umanità
indietro di secoli, facendo regredire l’uomo a ominide. Si vive obbedendo ad un
Destino che non si riesce a comprendere, accettando quello che accade con
rassegnazione, magari concedendosi l’unico svago di giocare con l’idea della
morte, assaporandone con la fantasia il gusto dolce e amaro, come fa lo
scrittore al centro della trama.
Per questo
quando una mattina bussano alla porta due suoi sodali, appartenenti agli
ambienti dell’opposizione, e gli chiedono di farsi interprete di un gesto
dimostrativo e darsi fuoco alle otto di sera davanti all’edificio del Comitato
Centrale del partito, lo scrittore non trova ragioni valide per non farlo e da
quel momento inizia la sua piccola apocalisse, una Via Crucis tra le strade di
Varsavia in attesa che arrivi l’ora designata per immolarsi in nome di qualcosa
nel quale probabilmente ha smesso di credere da tempo.
Attraverso le
pagine di Piccola apocalisse, Konwicki
ci restituisce l’immagine plastica della Polonia del dopoguerra: una nazione
sottomessa al giogo sovietico con una popolazione incapace di alzare la testa
davanti alle vessazioni quotidiane cui la sottopongono la casta di satrapi che
la malgoverna. Una Polonia dove ci si abitua a tutto e tutto si accetta: non
importa che ti stacchino acqua e gas da casa, che manchino latte e giornali, che
si venga sottoposti a controlli dei documenti più volte al giorno e che un
autobus passi ancora o meno per una determinata strada… Si vive sotto una cappa
di nebbia che ammanta il quotidiano fino a rendere incerta pure la data: il
giorno e il mese, per non dire l’anno.
L’analisi di
Knowicki è lucida e senza sconti per nessuno: la società polacca è una palude e
quelli che ci sguazzano felicemente non possono pretendere di farlo senza
sporcarsi. Ce n’è, ovviamente, per l’intellighenzia che flirta con l’opposizione
stando però ben attenta a non disturbare troppo il manovratore: conformisti
vestiti da rivoluzionari, smidollati che vivono di sponda, vecchi tromboni
interessati solo ad appagare gli appetiti di un ego smisurato. Tra gli aedi
della resistenza e gli intellettuali organici che appoggiano il (e si
appoggiano al) potere, non c’è poi molta differenza: sia in un caso che nell’altro
si tratta di uomini senza carattere, che agiscono per pura convenienza, ad accomunarli
è anche il fatto di considerare l’invasore sovietico esattamente per quello che
è: un usurpatore gretto e volgare, dal quale però accettano di farsi mettere il
morso con indifferenza.
Quello che
manca è il carattere, quei carattere che “aveva
fatto il suo tempo”. Il problema non
è (solo) la miseria, ma la monotonia di una vita senza speranza, l’accettazione
pedissequa di quello che succede. Le persone che lo scrittore incontra sul suo
cammino sembrano ripiegate su se stesse, capaci di vivere solo al loro interno,
dentro un recinto privato, facendosi bastare quanto è loro concesso,
consapevoli dell’inutilità delle loro vite.
Nulla desta più
meraviglia, neppure il crollo di un ponte (“Non
importa, - osserva un passante - sono
rimasti ancora un paio di ponti.”). La vita è così priva di importanza che
quando lo scrittore si accinge a fare testamento, le uniche cose che giudica
meritevoli di essere tramandate ai posteri sono una ricetta per guarire dalla
forfora, una per curare la stitichezza e dei consigli per cavarsela a “sette e
mezzo”…
Non si può
parlare neppure di un’umanità di “vinti”, perché gli abitanti della Varsavia
che ci descrive Konwicki si sono arresi prima di combattere. Rassegnazione e
disincanto dominano sovrani, non c’è più spazio neppure per l’indignazione o la
rabbia: rassegnazione è quello che resta dopo aver messo la sordina anche alle
emozioni e a dare la cifra del momento storico descritto dall’autore è l’indifferenza,
quell’indifferenza che manifestano al protagonista tutti coloro i quali
sembrano essere a conoscenza del suo progetto suicida (“Forse l’indifferenza, figlia della mediocrità, è quella materia
volatile come la nebbia, che si pietrifica in rocce, si congiunge in macigni,
cresce come massiccio montuoso fino al cielo schiacciando la nostra misera
vita? Forse la trasparente, incolore, inodore, informe, svogliata,
onnipresente, accogliente, gentile e innocente indifferenza è l’unico peccato
che viene trattenuto dallo staccio della Provvidenza? Forse nel giorno del
Giudizio Universale saremo giudicati unicamente per quel peccato- non peccato?”).
Tanta
indifferenza da parte della gente per la propria sorte, fa sì che la tragedia si
trasformi in certi momenti in farsa, come succede al Paradyz, quando un gruppetto
composto da cuochi ed avventori finisce per banchettare con il pranzo destinato
ai segretari del partito. Nulla importa, se non approfittare del momento,
cogliere quello che si può senza preoccuparsi del futuro.
La società
polacca presentata da Konwicki è un guazzabuglio dove convive tutto e il suo
contrario, o – per meglio dire – dove ogni cosa si stempera in qualcos’altro,
dove non esistono confini, dove tra potere e opposizione c’è una strana
contiguità per cui l’uno giustifica l’altra e viceversa, proprio come la
confusione che regna sovrana giustifica l’immobilismo, la passività della
popolazione. La Varsavia (ma non solo Varsavia…) tratteggiata in Piccola apocalisse è un luogo in cui il peccato
si confonde con la virtù, l’immoralità con la moralità, una melma maleodorante
nella quale la gente galleggia più per abitudine che per convinzione.
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