domenica 7 febbraio 2016

Tadeusz Konwicki - Piccola apocalisse


 "Nessuno protestava, ci avevano fatto tutti l’abitudine."



Piccola apocalisse è un libro sull’approssimarsi della fine del mondo, tema che Konwicki finge di voler “sterilizzare” riconducendolo a una dimensione intima, quella del protagonista del libro, mentre nei fatti oggetto della sua attenzione è quel mondo che sembra andare (o essere già andato) in frantumi sia di qua che di là dal muro.

Protagonista del romanzo è uno scrittore che ha da tempo perso la fiducia nella parola scritta e guarda alla vita con disillusione: nulla sembra avere significato, agire è compiere azioni stereotipate, vivere è camminare sulle macerie di una guerra (la seconda guerra mondiale) che ha spazzato via tutto quello che ha incontrato sulla sua strada: cultura, moralità, principi, idee… precipitando l’umanità indietro di secoli, facendo regredire l’uomo a ominide. Si vive obbedendo ad un Destino che non si riesce a comprendere, accettando quello che accade con rassegnazione, magari concedendosi l’unico svago di giocare con l’idea della morte, assaporandone con la fantasia il gusto dolce e amaro, come fa lo scrittore al centro della trama.

Per questo quando una mattina bussano alla porta due suoi sodali, appartenenti agli ambienti dell’opposizione, e gli chiedono di farsi interprete di un gesto dimostrativo e darsi fuoco alle otto di sera davanti all’edificio del Comitato Centrale del partito, lo scrittore non trova ragioni valide per non farlo e da quel momento inizia la sua piccola apocalisse, una Via Crucis tra le strade di Varsavia in attesa che arrivi l’ora designata per immolarsi in nome di qualcosa nel quale probabilmente ha smesso di credere da tempo.

Attraverso le pagine di Piccola apocalisse, Konwicki ci restituisce l’immagine plastica della Polonia del dopoguerra: una nazione sottomessa al giogo sovietico con una popolazione incapace di alzare la testa davanti alle vessazioni quotidiane cui la sottopongono la casta di satrapi che la malgoverna. Una Polonia dove ci si abitua a tutto e tutto si accetta: non importa che ti stacchino acqua e gas da casa, che manchino latte e giornali, che si venga sottoposti a controlli dei documenti più volte al giorno e che un autobus passi ancora o meno per una determinata strada… Si vive sotto una cappa di nebbia che ammanta il quotidiano fino a rendere incerta pure la data: il giorno e il mese, per non dire l’anno.

L’analisi di Knowicki è lucida e senza sconti per nessuno: la società polacca è una palude e quelli che ci sguazzano felicemente non possono pretendere di farlo senza sporcarsi. Ce n’è, ovviamente, per l’intellighenzia che flirta con l’opposizione stando però ben attenta a non disturbare troppo il manovratore: conformisti vestiti da rivoluzionari, smidollati che vivono di sponda, vecchi tromboni interessati solo ad appagare gli appetiti di un ego smisurato. Tra gli aedi della resistenza e gli intellettuali organici che appoggiano il (e si appoggiano al) potere, non c’è poi molta differenza: sia in un caso che nell’altro si tratta di uomini senza carattere, che agiscono per pura convenienza, ad accomunarli è anche il fatto di considerare l’invasore sovietico esattamente per quello che è: un usurpatore gretto e volgare, dal quale però accettano di farsi mettere il morso con indifferenza.

Quello che manca è il carattere, quei carattere che “aveva fatto il suo tempo”.  Il problema non è (solo) la miseria, ma la monotonia di una vita senza speranza, l’accettazione pedissequa di quello che succede. Le persone che lo scrittore incontra sul suo cammino sembrano ripiegate su se stesse, capaci di vivere solo al loro interno, dentro un recinto privato, facendosi bastare quanto è loro concesso, consapevoli dell’inutilità delle loro vite.

Nulla desta più meraviglia, neppure il crollo di un ponte (“Non importa, - osserva un passante - sono rimasti ancora un paio di ponti.”). La vita è così priva di importanza che quando lo scrittore si accinge a fare testamento, le uniche cose che giudica meritevoli di essere tramandate ai posteri sono una ricetta per guarire dalla forfora, una per curare la stitichezza e dei consigli per cavarsela a “sette e mezzo”…

Non si può parlare neppure di un’umanità di “vinti”, perché gli abitanti della Varsavia che ci descrive Konwicki si sono arresi prima di combattere. Rassegnazione e disincanto dominano sovrani, non c’è più spazio neppure per l’indignazione o la rabbia: rassegnazione è quello che resta dopo aver messo la sordina anche alle emozioni e a dare la cifra del momento storico descritto dall’autore è l’indifferenza, quell’indifferenza che manifestano al protagonista tutti coloro i quali sembrano essere a conoscenza del suo progetto suicida (“Forse l’indifferenza, figlia della mediocrità, è quella materia volatile come la nebbia, che si pietrifica in rocce, si congiunge in macigni, cresce come massiccio montuoso fino al cielo schiacciando la nostra misera vita? Forse la trasparente, incolore, inodore, informe, svogliata, onnipresente, accogliente, gentile e innocente indifferenza è l’unico peccato che viene trattenuto dallo staccio della Provvidenza? Forse nel giorno del Giudizio Universale saremo giudicati unicamente per quel peccato- non peccato?”).

Tanta indifferenza da parte della gente per la propria sorte, fa sì che la tragedia si trasformi in certi momenti in farsa, come succede al Paradyz, quando un gruppetto composto da cuochi ed avventori finisce per banchettare con il pranzo destinato ai segretari del partito. Nulla importa, se non approfittare del momento, cogliere quello che si può senza preoccuparsi del futuro.

La società polacca presentata da Konwicki è un guazzabuglio dove convive tutto e il suo contrario, o – per meglio dire – dove ogni cosa si stempera in qualcos’altro, dove non esistono confini, dove tra potere e opposizione c’è una strana contiguità per cui l’uno giustifica l’altra e viceversa, proprio come la confusione che regna sovrana giustifica l’immobilismo, la passività della popolazione. La Varsavia (ma non solo Varsavia…) tratteggiata in Piccola apocalisse è un luogo in cui il peccato si confonde con la virtù, l’immoralità con la moralità, una melma maleodorante nella quale la gente galleggia più per abitudine che per convinzione.

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