L'Uomo che Guarda
L'uomo che Guarda è il protagonista di questo romanzo
breve, l'ex campione di pallacanestro ammalato di tubercolosi che guarda passare
la vita con indifferenza, rinunciando a combattere la malattia.
L'Uoomo che Guarda è la voce narrante, il proprietario
dello spaccio che assiste all'autodistruzione del protagonista, cercando di
immaginare il senso di quella scelta.
L'Uomo che Guarda è Onetti, che con questo romanzo
sembra dirci che la vita è un mistero, un libro scritto in una lingua
impossibile da decifrare, una malattia con sintomi e segni troppo vaghi per
permetterci di arrivare a una diagnosi.
La vita: un lungo tunnel buio lungo il quale
procediamo per approssimazioni, per ipotesi, per lo più false o vere solo in
parte o solo per poco tempo. Inutile provare a capire, perché siamo destinati
irrimediabilmente a fallire. Cosa ci resta, allora? La possibilità di
raccontarla, la vita: esattamente quello che Onetti fa in questo piccolo libro
di struggente bellezza.
Una sapienza stilistica che unisce alla capacità
evocativa già notata in altre sue opere (“Eravamo a metà della primavera,
sconcertati da un solo furtivo e privo di violenza, da nottate fresche, da
piogge inutili”), uno studio attento dei personaggi, il carattere dei quali
sembra venir fuori dalla descrizione del loro aspetto, dai gesti che compiono
quotidianamente (emblematico a questo proposito è l'inizio del libro, con l'attenzione
che cade sulle mani del protagonista “lente, intimidite e goffe, con
movimenti senza fiducia”, che gestiscono le cose con fare disinteressato,
che nascondono i soldi “con pudore”; particolari minimi dai quali però
la voce narrante capisce che l'uomo “non si sarebbe curato, che non aveva
nessuna idea da cui trarre la volontà di curarsi”). A tutto questo Onetti
aggiunge un montaggio quasi cinematografico della trama, alternando campi
lunghi e primi piani.
“Non si sarebbe curato”, dice la voce
narrante all'inizio della storia, e a ciò aggiunge un'altra considerazione: “non
è che ritenga impossibile curarsi, ma non crede nel valore, nell'importanza del
curarsi”. Questo per dire che l'autore mette le mani avanti da subito,
lasciandoci intuire come andranno a finire le cose; non gli interessa lavorare
sulla suspance, su quello che potrebbe succedere, ma sviluppa il romanzo
secondo due direttive, due punti di vista: quello della voce narrante (e degli
altri comprimari che si succedono sulla scena), che prova a capire, a
immaginare, a indovinare perché l'ex cestista si comporta in quel modo e quello
del protagonista, il vero personaggio
onettiano, che procede lungo le pagine come un forzato con una grossa palla al
piede. Si muove lentamente, lentamente scivola lungo il piano inclinato dell'inevitabilità. Lui solo sa che
non è la tubercolosi ad aver decretato la sua condanna, ma qualcosa accaduto
molto prima, per questo non gli interessa curarsi, per questo è indifferente
alla vita, perché è un uomo sconfitto, che ha smesso di lottare e ha deciso di
arrendersi al suo destino.
Il protagonista ha una consapevolezza che quasi tutti
gli altri non hanno. Lui è solo e sa di esserlo, mentre gli altri credono
ancora, chi più chi meno, alla possibilità di poter condividere qualcosa,
qualsiasi cosa, fossero anche solo le congetture sulla vita dell'ex-cestista.
Non c'è lieto fine in questo romanzo, le cose vanno
come devono e non come noi vorremmo, eppure a me sembra di cogliere una piccola
luce al fondo del tunnel: la voce che narra la storia è quella di un
personaggio per certi versi simile al protagonista perché come lui è
consapevole della sua situazione, della mediocrità della sua esistenza. Quello
che lo differenzia da tutti gli altri è una capacità di intuire, di leggere nei
comportamenti, che ne fa un unicum e che per certi aspetti gli permette di
sublimare la realtà, di avvicinarsi con l'immaginazione ad un altrove diverso
dal presente di miseria in cui vive. Probabilmente mi sbaglio e questa è solo
una mia suggestione, ma a me piace vederla come una specie di lucina in fondo
al tunnel, una fiammella flebile che che diventerà fuoco scoppiettante ne “La
vita breve”.
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