sabato 24 febbraio 2018

Boris Andreevič Pil'njak – L’anno nudo



I russi…

Si dice, a ragione, che quello che la letteratura russa ha prodotto tra Otto e Novecento sia pari a quello che altre culture hanno saputo fare nel corso di tutta la loro storia.
Pil’njak è un simbolista del primo Novecento. uno scrittore della generazione dell’epoca d’argento, uno dei “Compagni di strada” (poputčki), come li definì Trockij e l’anno nudo è un libro indubbiamente importante e originale, che per certi aspetti ricorda Pietroburgo di Belyj.
L’anno nudo di cui si parla è il 1919 e l’opera non è solo la descrizione del terzo anno della guerra civile russa, ma la rappresentazione di un’incredibile serie di conflitti. Sullo sfondo della lotta tra Rossi e Bianchi, si agitano infatti le tensioni tra Occidente e Oriente, tra nobili e contadini, tra vecchio e nuovo. Un miscuglio di interessi divergenti e di visioni antitetiche che solo uno scrittore come Pil’njak, in parte russo asiatico, in parte tedesco, in  parte ebreo (e che quindi i contrasti li viveva sulla propria pelle) poteva raccontare.
L’anno nudo è un libro particolare, nel quale la scrittura soverchia la trama, e si tratta di una scrittura ricca, ricchissima (laggiù, a mille verste, a Mosca, l’enorme macina della rivoluzione aveva macinato l’Ilinka e la Cina si metteva in moto strisciando dall'Ilinka, era strisciata... « Sin dove? » « Sino a Taiezhevo! » «Menti! Mee-enti! Meee-eeenti! » Di notte, a Mosca, nella Kitai-Gorod, il tubino faceva il giocoliere, in frac e una borsa sottobraccio, ma di notte prendeva il suo posto la Cina, l’impero celeste, quello che giace al di là della Grande Muraglia, senza tubino, con bottoni al posto degli occhi. E dunque: possibile che adesso la Cina si sostituisca con il tubino, il frac e la borsa sotto il braccio?... Non si presenta forse terzo al turno chi può energicamente funzionare ? Tormenta. Marzo. Ah, quale tormenta quando il vento divora la neve! Scioo-iaia, scio-oiaia, sciooooiaiaaa!... Gviiu, gvaaau, gaaauL. gviiiuu, gviiiiiuuuuL. Gu-vu-zz! Gu-vu-zz! !... Gla-vbum! Gla-vbumm... Scioo-iaa, gvi-iuu-gaau... Gla-vbum! Guguz!... Ah, quale tormenta, che tempo di tormenta!... Quanto è bello!).
Si passa dalle atmosfere decadenti della descrizione del disfacimento di una famiglia aristocratica, alla forza imperiosa, alla violenza con cui viene descritto il mondo nuovo che sta per imporsi. È tutto un alternarsi sincopato di toni, un sovrapporsi di immagini. Colori, soprattutto, che spaziano dai chiaroscuri più cupi ai rossi più sfolgoranti. Atmosfere di calma bellezza (Il cielo torrido riversava un torrido chiarore rossastro, il cielo era venato d’azzurro e d’infinito. Fioriva il giorno, fioriva luglio. Per l’intera giornata sembrava che le vie, le chiese, le case, le strade si fondessero nell’aria e vibrassero appena percettibilmente nell’arroventata aria d’oro. La città dormiva il suo sonno da sveglia, la città d’Ordynin fatta di pietra. I giorni entravano in fioritura, fiorivano, sfiorivano, in fila continua, rifiorivano la domenica. Fioriva il luglio e le notti di luglio si vestivano di velluto. Il luglio aveva sostituito le stelle di platino di giugno con l’argento, la luna nasceva piena, rotonda, umida, avvolgendo il mondo e la città di Ordynin in umidi teli di velluto e di raso. Di notte salivano strisciando grigie nebbie canute. Le giornate assomigliavano a una moglie di soldato di trent'anni che vestisse il sarafàn, una di quelle che vivevano nelle foreste dietro Ordynin verso il lembo settentrionale del cielo: è dolce le notti baciare nel fienile una di queste donne di soldati. Le giornate opprimevano con la calura.), sembrano indirizzare la narrazione in un solco, ma subito dopo ecco subentrare situazioni quasi gotiche, che capovolgono la direzione del racconto (La città moriva senza esser nata. E fu orribile in primavera, quando, come incenso a un funerale, nelle strade si consumavano fuochi fumosi che bruciavano le carogne, che avvolgevano la città in un’afa letale; nelle strade depredate, saccheggiate, insudiciate, con le finestre infrante, con le case sprangate, con i tetti rotti. E gli uomini, che prima andavano al ristorante con le cocottes, che amavano le donne senza bambini, che avevano mani senza calli e verso i quarantanni la tabe, che sognavano Monaco, che avevano gli ideali di Paul de Kock, ed erano stati educati alla tedesca, volevano ancora, ancora rapinare, depredare la città, ormai cadavere, per trasportare quanto avevano rubato in campagna, barattarlo con grano conquistato con i calli, per non morire oggi, per rimandare la morte di un mese, per poter di nuovo scrivere le loro carte, amare (ormai con pieno diritto) senza bambini e attendere bramosamente il putrido passato, non osando capire che per essi era rimasta una cosa sola: emanar fetore di morte, morire, e che il desiato passato non era che la morte, la via alla morte...).
L’anno nudo è un fiume che scorre impetuoso, trascinando a valle tutto quello che incontra sul suo percorso. È un libro sulla Russia, scritto troppo da vicino, troppo dentro al dramma che racconta, per poterlo narrare con distacco. Ma è proprio dal suo essere così dentro che trae la sua forza, la forza di essere un libro, come detto, per immagini, per istanti, privo di una trama coerente, proprio perché è difficile trovare una coerenza negli argomenti di cui tratta.

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