Con questo libro Dag Solstad
prosegue il cammino ideale iniziato con Timidezza
e dignità, vale a dire una riflessione sul ruolo dell’intellettuale nella
società norvegese contemporanea. Un ruolo che sembra aver perso le solide basi
su cui fondava, di qui la sensazione di spaesamento, il sentirsi fuori posto,
isolato e privo di prospettive del protagonista ( e anche dell’autore).
In quest’opera Solstad disegna una specie di dramma psicologico. È la vigilia di
Natale quando il professor Andersen si trova ad assistere per caso ad un omicidio
e la storia, nel senso di azione, è tutta qui, perché il resto del libro è
dedicato a ragionare sul motivo per cui non sporge denuncia: una lunga serie di
congetture che lo porterà molto lontano con le sue speculazioni ma che al tempo
stesso non lo condurrà da nessuna parte.
Sa perfettamente che è suo dovere
telefonare alla polizia, eppure non riesce a farlo. Perché il delitto ormai è
avvenuto – si dice – e non può più essere impedito e lui non si sente di far
arrestare un uomo (“Mi ripugnava essere quello che interviene perché giustizia
sia fatta, lo immaginavo già tanto inorridito della propria azione che non
volevo aggravare le sue sofferenze”). Eppure sa che il suo comportamento è
sbagliato (“Il suo peccato d’omissione era indifendibile. Tutte le civiltà si
fondano sul fatto che un simile atto sia indifendibile. È un principio
assoluto, valido in ogni circostanza. Non rispettarlo faceva di lui un reietto,
insieme all’assassino”) e nel suo immergersi nelle pieghe del ragionamento
arriva – lui che non è assolutamente religioso - a tirar fuori Dio come arbitro
della situazione.
Dalla riflessione sulla scelta di
non denunciare l’omicidio, il professor Andersen passa a riflettere su se
stesso e sui motivi per i quali avrebbe voluto legare il suo destino a quello
dell’assassino: un goffo tentativo di essere ancora “alternativo”, diverso, non
omologato? Probabilmente, ma al tempo stesso un pensiero quanto mai
contraddittorio, considerato il ruolo centrale che riveste in quella società
che pure critica.
Cosa è successo? Quand’è che le
cose hanno cominciato a prendere questa direzione e lui a finire invischiato
nei meccanismi di una macchina che voleva distruggere? Questo è a mio avviso il
punto nodale intorno al quale si snoda il libro e a questo proposito molto
interessanti sono le riflessioni di Solstad su come la modernità ha cancellato
la coscienza storica riducendoci a vivere di presente o poco più e su come la
letteratura moderna abbia perso la capacità di dialogare con quella del passato
(“Negli Spettri come nelle tragedie greche. Il turbamento che può dare la
creazione poetica. Era il turbamento che i borghesi di Kristiania avevano
provato nella platea di un teatro, durante la prima rappresentazione di
Spettri, lo stesso turbamento. […] Ma allora, perché noi quel turbamento
l'abbiamo perduto?" […] "È molto peggio di quanto credessi",
pensò. "Solo cent'anni ci separano da quel turbamento, che per tutta la
storia dell'umanità è stato una condizione essenziale per una vita ricca di
significato, e non siamo più capaci di afferrarlo. Così vicini, e tuttavia
esclusi. È finita. Siamo esclusi da una delle possibilità più originali, più
sostanziali della natura umana, documentata almeno per duemilacinquecento anni?
Se questo è vero, vuol dire che sta nascendo una nuova tipologia umana e io,
che lo voglia o no, ne sono un rappresentante, e anche i miei studenti, che
nemmeno lo sanno", pensò il professor Andersen. "Poveri studenti
miei", pensò, "che non lo sanno.").
Nessun commento:
Posta un commento