sabato 6 ottobre 2018

Dag Solstad – La notte del professor Andersen



 Erano ancora contro il potere, intimamente opposizionali, anche se ormai di fatto erano i pilastri della società.

Con questo libro Dag Solstad prosegue il cammino ideale iniziato con Timidezza e dignità, vale a dire una riflessione sul ruolo dell’intellettuale nella società norvegese contemporanea. Un ruolo che sembra aver perso le solide basi su cui fondava, di qui la sensazione di spaesamento, il sentirsi fuori posto, isolato e privo di prospettive del protagonista ( e anche dell’autore).
In quest’opera Solstad disegna una specie di dramma psicologico. È la vigilia di Natale quando il professor Andersen si trova ad assistere per caso ad un omicidio e la storia, nel senso di azione, è tutta qui, perché il resto del libro è dedicato a ragionare sul motivo per cui non sporge denuncia: una lunga serie di congetture che lo porterà molto lontano con le sue speculazioni ma che al tempo stesso non lo condurrà da nessuna parte.
Sa perfettamente che è suo dovere telefonare alla polizia, eppure non riesce a farlo. Perché il delitto ormai è avvenuto – si dice – e non può più essere impedito e lui non si sente di far arrestare un uomo (“Mi ripugnava essere quello che interviene perché giustizia sia fatta, lo immaginavo già tanto inorridito della propria azione che non volevo aggravare le sue sofferenze”). Eppure sa che il suo comportamento è sbagliato (“Il suo peccato d’omissione era indifendibile. Tutte le civiltà si fondano sul fatto che un simile atto sia indifendibile. È un principio assoluto, valido in ogni circostanza. Non rispettarlo faceva di lui un reietto, insieme all’assassino”) e nel suo immergersi nelle pieghe del ragionamento arriva – lui che non è assolutamente religioso - a tirar fuori Dio come arbitro della situazione.
Dalla riflessione sulla scelta di non denunciare l’omicidio, il professor Andersen passa a riflettere su se stesso e sui motivi per i quali avrebbe voluto legare il suo destino a quello dell’assassino: un goffo tentativo di essere ancora “alternativo”, diverso, non omologato? Probabilmente, ma al tempo stesso un pensiero quanto mai contraddittorio, considerato il ruolo centrale che riveste in quella società che pure critica.
Cosa è successo? Quand’è che le cose hanno cominciato a prendere questa direzione e lui a finire invischiato nei meccanismi di una macchina che voleva distruggere? Questo è a mio avviso il punto nodale intorno al quale si snoda il libro e a questo proposito molto interessanti sono le riflessioni di Solstad su come la modernità ha cancellato la coscienza storica riducendoci a vivere di presente o poco più e su come la letteratura moderna abbia perso la capacità di dialogare con quella del passato (“Negli Spettri come nelle tragedie greche. Il turbamento che può dare la creazione poetica. Era il turbamento che i borghesi di Kristiania avevano provato nella platea di un teatro, durante la prima rappresentazione di Spettri, lo stesso turbamento. […] Ma allora, perché noi quel turbamento l'abbiamo perduto?" […] "È molto peggio di quanto credessi", pensò. "Solo cent'anni ci separano da quel turbamento, che per tutta la storia dell'umanità è stato una condizione essenziale per una vita ricca di significato, e non siamo più capaci di afferrarlo. Così vicini, e tuttavia esclusi. È finita. Siamo esclusi da una delle possibilità più originali, più sostanziali della natura umana, documentata almeno per duemilacinquecento anni? Se questo è vero, vuol dire che sta nascendo una nuova tipologia umana e io, che lo voglia o no, ne sono un rappresentante, e anche i miei studenti, che nemmeno lo sanno", pensò il professor Andersen. "Poveri studenti miei", pensò, "che non lo sanno.").

Nessun commento: