Mica cerca la Verità! Percorre l’universo
del pensiero come un collezionista alle prime armi la galleria di un
antiquario, e le sue stanze letterarie sono arredate con il gusto squisito e l’insensato
disordine con cui è arredata la casa di quel dilettante.
Borges lo sa benissimo, anzi ce lo
suggerisce. Ma il lettore che, con timore reverenziale, si genuflette appena
legge la parola aporia, prende per
profonda inquietudine quel che è solo un sofisticato passatempo. E invece di
tenersi caro il Borges veramente valido corre dietro all’autore di quei
giochetti.
Borges ha paura della dura realtà
dell’esistenza e produce due atteggiamenti simultanei e complementari: inventa
un mondo per gioco e fa suo il platonismo, teoria intellettuale per
antonomasia. L’intelletto (puro, trasparente, schivo) lo affascina. E siccome
vuol continuare a giocare, ha un motivo in più per non partecipare all’incessante
e duro processo della verità. Prende dall’intelletto quel che avrebbe preso un
sofista. Non cerca la verità, il suo godimento sta nel dialogo per il dialogo
e, soprattutto, dialoga con le parole
sulle parole. Lo attira l’intelligenza vacua, bipolare, scacchistica,
disimpegnata, giocherellona, non comune, sofisticata, lo soggioga l’ipotesi che
tutti possono aver ragione e, quindi,
che nessuno ce l‘ha.
[…] Tlön, Uqbar, Orbis Tertius rappresentano al meglio il suo
ecclettismo: desideri, errori stanno tutto lì, e ci costruisce un universo
acutissimo. Né lui né noi crediamo in quel che afferma, ma ci incanta la possibilità metafisica che esprimono. E
così in tutta la sua opera: il mondo è un sogno reversibile, è sempre possibile
un ritorno, e anche raggiungere l’immortalità nella memoria degli altri perché
l’immortalità non esista nell’eternità. Tutto vale e niente vale.
[…] Eppure c’è una costante che
sempre si ripete, forse per paura della dura realtà: l’ipotesi che questa realtà sia solo un sogno. E l’ipotesi che il
razionalismo ha sempre difeso, l’autentico patrono di Borges è Parmenide. […]
Ecco perché, per Borges, è la ragione che governa il mondo, e persino i suoi
sogni ed incantesimi devono essere armoniosi e intelligibili, e i suoi enigmi,
come nei romanzi polizieschi, hanno alla fine una chiave.
[…] Potremmo quasi affermare che
Borges è il simbolo letterario dell’illustre problema della razionalità del
reale e della sua (temibile) conseguenza: la paralisi.
[…]L’arte – come il sogno – è quasi
sempre un atto antagonista della vita diurna. La crudeltà del mondo che ci
circonda affascina Borges, e insieme lo spaventa. E si rintana nella sua torre
d’avorio sotto a spinta di quella stessa potenza che lo affascina. Il mondo
platonico è il suo bellissimo e inattaccabile rifugio: lì può abbandonarsi; è
pulito il suo rifugio, e lui odia la sporcizia della realtà; è senza
sentimenti, e lui non sopporta coinvolgimenti sentimentali; è eterno, e lui è
afflitto dalla fugacità del tempo. Per timore, disprezzo, pudore e per
malinconia, diventa platonico.
Chiuso nella sua torre, dunque,
architetta i suoi giochi. Ma il lontano rumore della realtà lo raggiunge:
filtra dalle finestre e sale dalle profondità del suo essere. Dopotutto egli
non è una figura ideale del museo di Meinong, ma un uomo in carne ed ossa che –
nonostante i suoi tentativi di sfuggire – vive in questo mondo. Non c’è solo il
mondo fuori, nella strada: quel mondo ce l’ha dentro, nel suo cuore. E come si
fa a liberarsi del proprio cuore?
[…] E l’uomo, dal suo amato
esilio, ricompare forse indistinto, fugace, equivoco, con tanto di passioni e
sentimenti.
E il Borges nascosto, quello che
come tutti ha le sue passioni e meschinità, ce lo immaginiamo dietro le sue
astrazioni: contraddittorio e colpevole.
[…] Il gioco lenisce ma non
annulla le su angosce, la sua nostalgia, la sua tristezza più profonda, i suoi
risentimenti più umani. Gli incantevoli inganni teologici e la magia puramente
verbale, in definitiva, non lo appagano. E così le sue più profonde angosce e
passioni ricompaiono in una poesia o in un frammento di prosa in cui davvero si manifestano quei sentimenti troppo umani.
Ma quello di Borges è un ritorno
alla realtà sempre ambiguo, parziale: basta una frase o una variante a
smentirlo. Forse è vittima della sua passione verbale, del suo ingegno
retorico.
[…] E Borges, il corporale
Borges, il sentimentale Borges, ha cercato l’ordine nel caos, la calma nell’inquietudine,
la pace nella tragedia, cerca dalla mano di Platone la via per accedere all’universo
incorruttibile. […] Sembra che per lui l’unica cosa degna di una grande
letteratura sia il regno dello spirito puro. Mentre la cosa degna di una grande
letteratura è lo spirito impuro: cioè l’uomo; l’uomo in questo confuso universo
eracliteo, non il fantasma, il cielo platonico.
[…] Dio non scrive romanzi.
Quella specie di oppio platonico
non ci serve. Anzi finisce per farci apparire tutto un gioco, un simulacro, un’infantile
evasione. E anche se quel mondo fosse vero, confermato dalla filosofia e dalla
scienza, questo mondo è per noi l’unico vero, l’unico che ci provoca dolore, ma
pienezza: questa realtà di sangue e di fuoco, di amore e di morte in cui vive
quotidianamente la nostra carne e l’unico spirito che veramente possediamo: lo
spirito incarnato.
[…] Il Borges che vogliamo
riscattare e che è davvero riscattabile è il poeta che qualche volta ha cantato
cose umili e fugaci, ma semplicemente umane: un tramonto di Buenos Aires, un
cortile dell’infanzia, una strada di periferia. Questo è (oso profetizzare) il
Borges che resterà. Il Borges che dopo il suo frivolo periplo per i territori
della filosofia e della teologia, in cui non crede, torna in questo mondo meno
affascinante ma in cui crede; in cui nasciamo, soffriamo, amiamo e moriamo.
[Ernesto
Sabato: “Lo scrittore e i suoi fantasmi”]
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