Melancholia è un dittico che ruota attorno alla figura di Lars
Hertervig, paesaggista norvegese dell’Ottocento.
La prima parte del primo libro (quella
principale) è focalizzata su un solo giorno nella vita del pittore, quello che
rappresenta il punto di rottura, l’istante di non ritorno, il momento in cui la
pazzia del protagonista si rende manifesta.
Una delusione amorosa è il primum
movens della pazzia del protagonista (pazzia che, come scopriremo più avanti,
era già in fieri ed aspettava solo di essere messa in moto), personaggio in
bilico tra la convinzione di essere un grande pittore (“io so dipingere. Anche Gude
sa dipingere. E pure Tidemann sa dipingere. Io so dipingere. Nessuno sa
dipingere come me, solo Gude. E poi Tidemann.”) e la paura di sottoporsi al
giudizio del suo maestro, che lo spinge a non presentarsi quella mattina
all’Accademia delle Belle Arti per il timore che il suo quadro possa non
piacere. Un personaggio senza equilibrio quindi, pericolosamente sospeso tra
due assoluti (il cielo e la polvere), incapace di gestire i rapporti
interpersonali, perché confonde i suoi pensieri con la realtà e non comprendendo
ciò che lo circonda cerca rifugio nei ricordi e nelle allucinazioni
condannandosi all’inazione.
Fosse dimostra di aver studiato a
fondo la schizofrenia, perché nella figura di Hertervig che tratteggia ci sono
tutte le caratteristiche della malattia: la vulnerabilità, la confusione
spazio-temporale, la paranoia, le allucinazioni uditive e visive (“le vesti
bianche e nere”), il rifugio in movimenti stereotipati auto-consolatori (“ E mi
premo le mani contro la faccia, e comincio a dondolarmi con il busto, faccio
dondolare il busto da un lato all’altro”)…
Originalissima la scelta
dell’autore di raccontare Hertervig in prima persona e soprattutto di farlo dal
punto di vista della malattia, la schizofrenia, che Fosse cerca di restituirci
attraverso un corpo a corpo con la scrittura difficile da seguire, a tratti
fastidioso, caratterizzato da frasi brevi e ripetizioni continue, pensieri e
parole che il protagonista rimastica ossessivamente con l’intento di
convincersi della veridicità dei suoi ragionamenti e finendo invece con il
precipitarci dentro affondando sempre di più nella malattia. Sorprendentemente
la scrittura con cui lo scrittore norvegese cerca di riprodurre la schizofrenia
del protagonista, mostra anche parecchi tratti in comune con la pittura: le
reiterazioni, i tentativi di definire, precisare, raccontare da capo quasi
ininterrottamente, sembrano altrettante pennellate, strati su strati di colore,
colate materiche versate sulla tela nel tentativo di riprodurre quella luce che
in un gioco di rimandi sembra ossessionare tanto l’Hertervig del libro quanto
l’Hertervig pittore, almeno a giudicare dai suoi quadri (Borgoya, uno dei
principali, appare nella copertina del volume). La luce quindi come centro del
libro proprio perché centro del dramma del protagonista, luce che vede
provenire dagli occhi della sua amata e che lui sente essere la stessa luce
verso la quale tendono i suoi dipinti e nella quale riesce ad entrare nei
momenti, quasi mistici, di ispirazione.
“Io so dipingere, - dice ad un certo
punto – perché infatti io so vedere, sì, io vedo tutto e vedo quello che altri
non possono vedere e per questo so dipingere”. Ma più avanti aggiunge: “Vedo
troppo. Vedo troppo per poter dipingere.”.
Una postilla, solo per aggiungere
che purtroppo questo libro è costellato da un numero di refusi ed errori
(soprattutto negli a capo) inusuale e piuttosto fastidioso.
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