domenica 7 giugno 2009

Equilibrismi (Là).


Non essendo possibile aggiungere commenti sul suo sito, riprendo qui il post di Clelia Mazzini
per aggiungere qualche considerazione.


Qualsiasi movimento ha bisogno di un centro di gravità.
Dobbiamo riuscire a governare quel centro.
Heinrich von Kleist Il teatro delle marionette§ VIII


Il tema del centro di gravità, dell'equilibrio, della fune sulla quale camminare mi è particolarmente caro. Un pò come quello della difficoltà (impossibilità?) a comunicare e quello del doppio, del vero/falso.
La citazione di Clelia me ne ha fatta venire in mente un'altra, che vorrei condividere qui.
I Quattro quartetti (come le Elegie duinesi) sono un luogo al quale mi piace tornare spesso. Sento che in quei versi sono nascoste molte risposte alle mie domande e probabilmento proprio il fatto di non riuscire mai a comprenderli fino in fondo è la molla che mi spinge a rileggerli così spesso. Ogni volta è come entrare nello stesso prato e scoprire nuovi fiori, nuovi odori. In breve: per me sono vivi, continuano a vivere ogni giorno e a parlarmi. Sta a me cercare di capire quello che vogliono dirmi.


Al punto fermo del mondo che ruota. Nè corporeo nè incorporeo;
Nè muove daverso; al punto fermo, là è la danza,
Ma nè arresto nè movimento. E non la chiamate fissità,
Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Nè moto da verso,
Nè ascesa nè declino. Tranne che per il punto, il punto fermo,
Non ci sarebbe danza, e c'è solo la danza.
Posso soltanto dire: siamo stati, ma non so dire dove.
E non so dire per quanto tempo, perchè questo è collocarlo nel tempo.
L'intima libertà dal desiderio pratico, La liberazione dall'azione e dalla sofferenza, dalla spinta
Interna ed esterna, anche se circondate
Da una grazia del senso, una luce bianca che sta ferma e si muove,
Ehrebung senza moto, concentrazione
Senza eliminazione, insieme un mondo nuovo
E il vecchio fatto esplicito, capito
Nel completarsi della sua estasi parziale,
Nel risolversi del suo parziale orrore.
Eppure la concatenazione del passato e del futuro
Intessuti nella debolezza del corpo che cambia,
Protegge l'umanità dal cielo e dalla dannazione
Che la carne non può sopportare.
Il tempo passato e il tempo futuro
Non permettono che poca consapevolezza.
Essere consapevole è non essere nel tempo
Ma solo nel tempo il momento del nel giardino delle rose.
Il momento sotto la pergola dove la pioggia batteva,
Il momento nella chiesa piena di correnti d'aria all'ora che il fumo ristagna,
Possono essere ricordati, mischiati al passato e al futuro.
Solo col tempo si conquista il tempo.


[T.S. Eliot: "Quattro quartetti - Burnt Norton"]

sabato 6 giugno 2009

Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme (Ipse dixit).

La persona che ha una cosiddetta "depressione psicotica" e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette "per sfiducia" e per qualche altra convinzione astratta che il dare e l'avere della vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l'invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo io e voi se ci trovassimo davanti alla stessa finestra per dare un'occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l'altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano "No!" e "Aspetta!" riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.


[David Foster Wallace: "Infinite Jest"]

domenica 24 maggio 2009

di una strana discussione ascoltata in un bar del centro (Incipit)

Prendete una cartina geografica dell’Europa, armatevi di penna e righello e collegate con un tratto di biro Atene a Copenaghen. A questo punto congiungete la capitale greca e quella danese a Cabo S. Vicente, la punta più meridionale del Portogallo. Avrete ottenuto un bel triangolo, le cui bisettrici, centimetro più centimetro meno si incontreranno all’altezza della città ligure della Spezia.
La Spezia non è uno di quei posti dove si arriva per caso, chi va lì lo fa perché decide di andarvi. Certi (pochi) ci possono finire per motivi di lavoro, i più perché attratti dai panorami delle Cinque Terre, di Lerici o Portovenere; ecco, io invece alla Spezia ci sono andato per curiosità, per capire se ci fosse un senso nelle cose, per vedere che razza di posto fosse quello che il fato o chi per lui si era divertito a porre al centro di quello che chiamo Il Mio Triangolo Magico, quello formato dalle due città in cui sono cresciuto (Atene e Copenaghen, appunto) ed il luogo per me più carico di pathos: Cabo S. Vicente, la porta dell’Europa.
Capita così che in un sabato qualunque mi trovi seduto in uno dei tanti bar che stanno dietro alla passeggiata a mare, ad oziare leggendo il giornale, una di quelle mattine che si trascinano con l’indolenza delle stagioni di passaggio, quando non è più estate ma non ancora autunno, e mi trovi ad assistere ad una delle più assurde conversazioni che io ricordi. E’ un amico italiano a spiegarmi il motivo dell’animazione che sta prendendo forma al tavolino a fianco del nostro.
- E’ cominciato tutto quindici giorni fa, - mi dice - quando qualcuno ha letto sul giornale che il Don Chisciotte era stato giudicato da non so quale giuria internazionale il libro più bello di tutti i tempi. Sai come vanno queste cose, uno dice una cosa, un altro risponde con una battuta e via così. In sostanza sembra che i protagonisti del contenzioso siano quei due signori che vedi seduti uno in fronte all’altro. Quello più giovane con gli occhiali tondi ed un filo di barba è quello che sostiene la grandezza del romanzo di Cervantes mentre l’altro, quel signore dai capelli bianchi e dalla voce baritonale non sembra dello stesso avviso. Fin qui niente di strano, - spiega il mio amico - ad ogni latitudine il bar è da sempre luogo di discussioni anche accese (anche se raramente di argomento letterario) il punto è che sembra che durante la conversazione di due settimane fa il signore meno giovane si sia lasciato un po’ prendere la mano, dicendo qualcosa che forse avrebbe fatto meglio a non dire, qualcosa a proposito del fatto che lui insegnava lettere al Liceo Classico da più di vent’anni ed aveva certo più autorità per discutere di un argomento del genere di quanta ne avesse il suo interlocutore, geometra comunale. Ovvio che il giovanotto non potesse lasciar correre e replicasse per le rime. In breve: la discussione si era spostata sul personale. Ad aggiungere ancora un po’ di pepe alla cosa, sembra che qualcuno avesse pensato bene di coinvolgere un avvocato lì presente, più noto come habitué dei bar del centro che del foro spezzino, il quale, tanto per fare il brillante e darsi un po’ di tono, avrebbe invitato i due a rinfoderare gli artigli e prepararsi argomenti validi per una pubblica discussione che avrebbe dovuto aver luogo esattamente due settimane dopo, naturalmente al suo cospetto di giudice imparziale.
Ed eccoci allora seduti ad un tavolino di un anonimo bar della Spezia sotto un pallido sole del mezzogiorno settembrino, pronti ad assistere ad un’insolita contesa sulla rilevanza o meno del Don Chisciotte nella storia della letteratura di tutti i tempi. Quella che segue è la descrizione quasi fedele di come si sono svolti i fatti, non tanto perché io sia dotato di una memoria prodigiosa, ma perché la straordinarietà della situazione mi suggerì di mettere in funzione il piccolo registratore che mi accompagna nei miei viaggi. Sì, lo so che non sta bene registrare la gente a sua insaputa, ma converrete che il mio è stato un peccato veniale: troppo ghiotta era la situazione perché uno curioso come me potesse lasciar perdere…
[Lars W. Vencelowe: "di una strana discussione ascoltata in un bar del centro"]

sabato 23 maggio 2009

L'onda


blandisce

(forse) lenisce

poi scivola lieve

lascia una scia


esce di scena

[Lars W. Vencelowe: "Assonanze"]

lunedì 18 maggio 2009