sabato 19 dicembre 2015

Stanisław Lem – Solaris


 “Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi.”

Sorprendente romanzo, di fantascienza nella forma, ma che mescola, psicologia, filosofia, metafisica e gnoseologia. Solaris è un pianeta ai limiti dell’universo, con il quale si trovano a fare i conti gli ospiti di una navicella spaziale. Pianeta un po’ particolare però, perché dotato di vita ma la cui popolazione è rappresentata da un unico abitante, un oceano che occupa l’intera superficie del corpo celeste e interagisce gli astronauti dando realtà ai loro fantasmi.
I protagonisti della storia sono così chiamati ad un doppio confronto: da un lato con un tipo di vita intelligente diversa dalla nostra, qualcosa che non conosciamo e che travalica le nostre capacità di comprensione perché vive secondo regole e leggi davanti alle quali la logica e la scienza sembrano strumenti spuntati, dall'altro devono confrontarsi con se stessi, con un passato e un vissuto che credevano morto e sepolto e che ora torna in vita e non può essere eluso.

Solaris è un viaggio intorno ai limiti della conoscenza umana, un libro sull'impossibilità di spiegare tutto e insieme sul bisogno di provare a farlo, un grande romanzo su quel mediocre impasto di cuore e cervello che è l’uomo e sul suo bagaglio fatto di poco sapere e tanta sicumera con cui va alla conquista del cosmo.

sabato 12 dicembre 2015

Dave Eggers – I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre?


Un grande futuro dietro le spalle?

Alle volte ho l'impressione che la facilità di scrittura di certi autori (nordamericani, soprattutto) rappresenti più un freno che uno stimolo a fare di più.
Eggers è uno scrittore originale e curioso, che in questo libro ha deciso di fare il punto della situazione: dove siamo, perché non siamo arrivati dove volevamo, cosa è andato storto? Roba grossa, materiale su cui si potrebbe riflettere a lungo, con la certezza di approdare a risposte sostenute da argomentazioni solide ma che probabilmente finirebbero per andare in direzioni diverse. Nulla di male, la complessità dell’argomento è tanta manna per uno scrittore che nell’abbondanza è libero di scegliere dove intingere la penna e dove sorvolare; questo non è un saggio ma un’opera narrativa, qui non ci interessa tanto la teoria o la costruzione di modelli quanto il ragionamento, il percorso, lo sviluppo della trama e dei personaggi.
Ottimo l’argomento quindi, e ottima ed originale anche la scelta della forma. I vostri padri è un romanzo fatto di soli dialoghi, Thomas, il protagonista, vuole delle risposte dalla società, dagli altri, e per averle non esita a rapire diverse persone per costringerle a parlare con lui, per capire perché ad un certo punto della sua vita si è guardato intorno e non ha trovato più nessuno. Lui ha sempre creduto in quello che gli raccontavano, nelle spiegazioni, nelle motivazioni e nelle promesse che via via gli sono state proposte… e allora perché si è ritrovato da solo? Perché gli altri non sono più accanto a lui? Perché non fanno quello che dicono? Cosa ne è stato, per riassumerla in una frase, del sogno americano?
«Ho qui un astronauta che ha fatto tutto quello che gli era stato detto di fare e questo non l’ha portato da nessuna parte. È solo un esempio. Arriva al massimo nel suo campo e gli rifilano un calcio in culo. Dall’altra parte della scala c’è Don, che voleva essere lasciato in pace, che era confuso, e il prezzo per essere una persona confusa in questo mondo sono diciassette pallottole ricevute nel giardino di casa tua.»
Il problema, secondo me, è che l’autore dispone molto bene le carte sul tavolo ma poi non sviluppa il gioco, si accontenta di quello che ha abbozzato senza voler andare oltre. Peccato, perché Thomas è un personaggio interessante, con un sacco di sfaccettature che avrebbero meritato di essere approfondite; potenzialmente vedo il lui l’antieroe del romanzo del nuovo millennio (ok, magari esagero un po’…), eppure Eggers sembra non accorgersene o non essere interessato alla possibilità di scrivere il grande romanzo. Si ferma sulla soglia, e quando scrive:
“Etichettiamo tutto alla velocità della luce, senza appello, tanto che non troviamo più spazio per le sfumature”
ecco, ho l’impressione che in questo libro lui abbia fatto lo stesso.


domenica 29 novembre 2015

La poesia cresce sulla contraddizione, ma non la ricopre.


ODE ALLA MOLTEPLICITÀ

Non capisco tutto e mi rallegro

persino che il mondo come un oceano
inquieto superi la mia capacità
di comprendere il senso dell’acqua, della pioggia,
dei bagni nello Stagno del Fornaio, vicino
al confine boemo-tedesco, nel settembre
del 1980; dettaglio questo senza particolare
significato, un profondo stagno germanico.
Che l’Ego in crisi di ossigeno
respiri tranquillo, un nuotatore taglia la linea
del meridiano, è sera, le civette si svegliano
dal sonno diurno, in lontananza
rombano pigramente le auto. Chi per una volta
ha sfiorato la filosofia è perduto,
non lo salverà la poesia, resterà
sempre, rimanenza
incalcolabile, la nostalgia. Chi per una volta ha conosciuto
la folle corsa della poesia più non proverà
la quiete petrosa della prosa familiare
dove ogni capitolo è nido
di una generazione. Chi per una volta è vissuto non
dimenticherà la delizia mutevole delle
stagioni, persino le bardane gli appariranno in
sogno e le ortiche e i ragni, solo
un poco più brutti delle rondini. Chi per una volta
ha incontrato l’ironia sbufferà ridendo
durante la lezione del profeta, chi per una volta
ha pregato non solo con le labbra asciutte
ricorderà la presenza di una strana eco
rimbalzata da una parete. Chi per una volta ha
taciuto non vorrà parlare durante
il dessert, chi è stato ustionato dallo shock
dell’amore farà ritorno ai libri
con volto mutato.
Rimani dritta, anima singola, di fronte
all'eccesso. Due occhi, due mani,
dieci dita ingegnose e
un solo Ego, un quarto d’arancia,
la più giovane delle sorelle. Il piacere
dell’udito non guasta il piacere
della vista, m a l’ebbrezza della libertà distrugge
la pace degli altri sensi quieti.
La pace, un nulla spesso, pieno di dolce
succo come una pera a settembre.
Brevi istanti di felicità svaniscono
sotto una slavina di ossigeno, d ’inverno una cornacchia
solitaria batte il becco sulla bianca distesa
gelata del lago, una coppia di picchi impaurita
dall'accetta cerca sotto la mia
finestra un pioppo abbastanza malato.
Una donna dall'aria assente scrive
lunghe lettere e la nostalgia si gonfia come
l ’oppio; in un museo egizio un papiro
bruno è intriso della stessa
nostalgia, più antica di alcuni
millenni, incrollabile e intatta.
Le lettere d ’amore vanno sempre
a finire nei musei, i curiosi sono più
ostinati degli innamorati. L'Ego avido
trangugia l’aria, la ragione si risveglia
dal sonno diurno, il nuotatore esce
dall'acqua. Una donna avvenente posa per
la felicità, gli uomini fingono di essere
più coraggiosi di quanto non siano veramente,
il museo egizio non cela le debolezze
umane. Esistere, per esistere ancora,
forse offrendosi in affitto
a una delle gelide stelle. E talvolta
beffarsi di lei che è fredda e viscida
come una rana nello stagno. La poesia cresce sulla
contraddizione, ma non la ricopre.

[Adam Zagajewski: "Dalla vita degli oggetti"]


sabato 28 novembre 2015

Juan Carlos Onetti - Raccattacadaveri



Onetti è Onetti è Onetti…

Raccattacadaveri è uno dei libri che Onetti dedica alla saga di Santa Maria, Raccattacadaveri è Larsen, gestore di un bordello, ma Raccattacadaveri non è solo una trama come tante, Raccattacadaveri è un capolavoro di stile, una delizia per il lettore, con passaggi da leggere e rileggere più volte per gustarne appieno il bouquet, come un vino sapientemente invecchiato del quale non vogliamo perdere neppure una sfumatura.
Sfrondare, tagliare, eliminare il più possibile gli aggettivi, dire e non dire, andare all’osso… così dicono i soloni della scrittura creativa. Sì, certo: vallo a dire a Onetti, prova a togliere solo una parola a quelle frasi rigogliose, cariche come grappoli d’uva.
Era un uomo di oltre cinquant’anni, con una peluria a piumino intorno alla pelle rosea del cranio, con la faccia flaccida e glabra, con sporadiche fiammelle d’astuzia e d’interesse sotto la canizie precoce delle sopraccigli. S’accomodava, corretto e pesante, sul sedile circolare della sedia, teneva unite le scarpe piccole e lucide, e descriveva curve nell’aria con la mano sinistra, o la presentava a palmo rovesciato sulla coscia. Forse sapeva di cosa stava parlando quando imponeva il racconto della sua vita, ed enumerava o diminuiva ingiustizie; quando la voce ridente ripercorreva luoghi comuni: il capitalismo, l’oligarchia, le cooperative agricole o il laburismo inglese; quando lasciava intendere che tutto ciò era stato, se non un prologo deliberato, un antecedente fatale dell’esistenza di un postribolo a Santa Maria.
Ecco, questo, per esempio, è Barthè, il farmacista.
E questo Jorge, il ragazzo:
io sono io, Jorge. Io sono io, questo essere, questo loro “ragazzino”, triste, diverso, incerto e saldo quanto nessuno di loro potrebbe mai sospettare; così discosto e così incombente su tutti loro. Io sono costui che guardo vivere e fare, con simpatia, senza amore eccessivo; io sono costui con la pazienza cortese e inesauribile nei confronti di ognuna delle commedie tediose e senza spirito nelle quali loro si ostinano a complicarsi per far sì che gli riesca intellegibile, per preservarsi dalle novità e dalle diffidenze. Cammino in un giardino curato e umido, mi lascio bagnare il viso dalla pioggia che non spiega nulla, penso oscenità distratte, guardo la luce della finestra dei miei. Non voglio imparare a vivere, ma scoprire la vita una volta per sempre. Giudico con passione e vergogna, non posso impedirmi di giudicare; tossisco e sputo verso il profumo dei fiori e della terra, ricordo la condanna e l’orgoglio di non partecipare alle loro azioni.
E siamo solo a pagina 30. 30 di 300.
Trecento pagine di prosa ipnotica, parole che galleggiano leggere sul foglio, la sciabordio dell’onda che lambisce la riva, quel ritmo regolare che chiede solo di essere assecondato. Rallentare la corsa dei pensieri, chiudere gli occhi, ascoltare, provare a sentire le cose. Lasciarsi andare.
Raccattacadaveri è un libro di immagini: le donne di vita che arrivano a Santa Maria, i vari protagonisti della trama, il dottor Diaz Grey che lascia la casa di Larsen:
Scesero le scale, entrando nel vento freddo che arrivava dalla strada; Diaz Grey con gli occhi socchiusi e col bastone appeso al braccio, mentre si appoggiava al corrimano e così si lasciava guidare, risentì, con la stessa intensità di cinque anni prima, ma con una tenera curiosità che non aveva conosciuto prima, la tentazione del suicidio. Si calava nella penombra verso il vento e la solitudine delle strade, verso le abitudini, verso il pranzo da solo, verso la ripetizione di gesti e di frasi rivolti alla serva, verso i vecchi trucchi per mezzo dei quali riusciva a non pensarsi, a non affrontarsi.
Un mondo di vinti, di personaggi che interpretano una parte e mentono, anche a se stessi. Un mondo fatto di attese infinite, di disincanto, di parole che evocano immagini che evocano suggestioni…


Leggere Raccattacadaveri ed entrare nel suo mondo è stato per me un grande privilegio.