mercoledì 11 maggio 2016

L'inganno delle parole: A. Moresco

 
Cominciano sempre così, in un primo momento, le parole...” mi dicevo andando verso la chiesa “quando una è partita non si ferma più. L’aria acquista una certa quantità di moto, non può fare altro che continuare ad andare, ad avanzare, anche quando ormai la sua forza motrice non agisce più. Attira a sé altre parole, altri suoni che non può non incontrare sulla sua strada, altri ancora ne comincia a suscitare, e questi a loro volta ne suscitano altri e altri ancora... si espande sempre di più, solleva cartacce, ramazza dappertutto onde sonore, ingloba piccoli e grandi trasferimenti d’energia, spostandosi da un punto all’altro dello spazio, interi fronti vocali cominciano a scollarsi, non si capisce neanche più se è trascinante oppure trascinata, le sue pareti dilagano irresistibilmente, formano in un istante le necessarie connessioni, mentre la sua forza centrifuga aumenta ancora di più, smotta su altri piani che a loro volta smottano, le sue superfici cominciano a scottare, attira a sé colonie sonore sterminate, si raccoglie a valanga su se stessa, rotola sempre più irradiata e irradiante, sradica, strappa, e alla fine non può che assumere poco per volta l’inconfondibile aspetto di una grande sfera di fuoco che rovina...”

Sentivo le parole andare e venire rallentate eppure tutte attaccate. “Come fare a staccarle?” pensavo confusamente nel dormiveglia. “Ed è poi veramente possibile staccarle? Precedendo di molto la parola già pronunciata, forse, la prima parola mai pronunciata, oppure trattenendo così a lungo quella ancora da pronunciare che tutte le altre non possano che staccarsi e sgranarsi per forza nella loro corsa...”

domenica 8 maggio 2016

Witold Gombrowicz – Pornografia


“La bellezza stava tutta dall’altra parte, dalla parte dei giovani”

Le cose sono come ci appaiono. Guardando le interpreto, le faccio mie trasfigurandole. Questo, a grandi linee, è il pensiero che Gombrowicz sviluppa in quella ideale trilogia nella quale Pornografia si pone a metà strada tra Ferdydurke e Cosmo.
Seguendo l’assunto esposto, ne consegue che ognuno di noi “vede” un suo mondo e legge ogni fatto in maniera personale, con la conseguente scomparsa dell’oggettività, di una verità condivisa. Un mondo quindi per ogni persona, ma anche due mondi che si fronteggiano: quello degli adulti e quello dei giovani, due mondi che obbediscono a regole diverse.
La gioventù è l’età delle possibilità, non esistono ancora strade tracciate ma una miriade di sentieri da esplorare. È fuoco che cova sotto la cenere, età delle contraddizioni (innocenza/malizia, per dirne una) e delle contrapposizioni (istinto contro esperienza, leggerezza contro serietà, fantasia contro certezza), ma anche crudeltà e, soprattutto, incoscienza.
La gioventù è Bellezza, rifugio che l’autore sceglie per fuggire dalla normalità della vita adulta, ed essendo mondo adulto e mondo dei giovani due sistemi non comunicanti, l’immaginazione diventa l’unico strumento possibile per provare a stabilire una forma di contatto con un universo così lontano. L’opera a cui Gombrowicz si affanna a dar vita è una costruzione tanto affascinante quanto ardita, basata su fondamenta fragilissime, che vengono messe alla prova ogni volta che l’autore aggiunge una nuova carta al castello che sta faticosamente prendendo forma. Costruzione destinata a crollare irrimediabilmente, che da sempre costruire sui sogni è un po’ come scrivere sull’acqua…

Un doppio delitto, un “delitto a specchio”, sarà la conclusione che i due protagonisti del libro partoriranno per dare una logica al complesso di situazioni che si sono venute a creare, ottenendo però il risultato di accelerare ancora di più quel processo di frammentazione della realtà che Gombrowicz inizia a tratteggiare anche dal punto di vista stilistico (penso alla scrittura sincopata, con un sacco di puntini di sospensione) e che deflagrerà definitivamente con Cosmo.

domenica 1 maggio 2016

Clarice Lispector – Legami familiari





“Il suo era l’apprendistato della pazienza, il voto dell’attesa. Dal quale forse non avrebbe più saputo liberarsi”
Ho faticato un po’ ad entrare in sintonia con i racconti della Lispector. La narrazione in terza persona, i periodi brevi che si limitano a descrivere comportamenti, gesti, parole e soprattutto la costruzione paratattica che trasporta gli avvenimenti in un eterno presente dominato da un’atmosfera di attesa e sospensione, mi attiravano sempre più dentro alla storia, sempre più avanti nella trama e contemporaneamente mi davano l’impressione che mi stessi perdendo qualcosa.
Perché c’è sempre qualcosa che si è perso, che si è rotto, nei personaggi della Lispector, qualcosa da cui discende tutto il resto.
Una raccolta che esplora - come detto nel titolo - l’universo della famiglia, le persone per quello che sono e per come interagiscono (o non interagiscono) tra loro. Mi viene in mente Felici i Felici, di Yasmina Reza: le due autrici affrontano pressappoco lo stesso argomento a cinquant’anni di distanza, anche se con una scrittura decisamente diversa, più compassionevole l’occhio della franco-iraniana,  decisamente più “crudo” il punto di vista della scrittrice (ucraino-)brasiliana.
Clarice Lispector osserva le dinamiche familiari, vite in bilico,  e ce le restituisce senza ammorbidirle, senza provare a smussare gli angoli. Questa è la vita, – sembra volerci dire – questi siamo noi. Specchiamoci e riflettiamo su quello che i nostri occhi vedono. Nessuna indulgenza, nessuna assoluzione. Solo la nuda descrizione di quello che i personaggi  provano.
È un vivere difficile, quello che si racconta nelle pagine di Legami familiari, un vivere al quale non si può sfuggire, ma solo cercare di interpretare sforzandosi di farsi meno male possibile, agendo con circospezione, stando perennemente sulla difensiva.
I personaggi della Lispector vivono soprattutto dentro se stessi, consapevoli che uscire dal guscio che si sono costruiti può rappresentare un rischio del quale non sanno calcolare la portata, accompagnati dalle “meschinità di una vita intima fatta di precauzioni”.
Sono racconti che comunicano un senso di qualcosa che incombe, che rischia di succedere da un momento all’altro. Quello che vediamo è un mare nero, con le acque ferme, ma sotto intuiamo che c’è un agitarsi di correnti, un turbinio di emozioni e sentimenti, che salgono e scendono senza raggiungere mai la superficie,  condannate a vivere compresse.
Ecco, credo che proprio questa “tensione”  sia la cifra di Legami familiari, una tensione che la Lispector dimostra di maneggiare con precisione ed efficacia, esprimendola al meglio quando descrive quell’ambivalenza affettiva dei personaggi sulla quale si è soffermata la psicanalisi.
Qualche esempio:
“Amava il mondo, amava quanto era stato creato – amava con repulsione. Così come era sempre stata affascinata dalle ostriche, con quel vago disgusto che l’approssimarsi della verità le provocava, mettendola in guardia.”
“perché quella bellezza estrema la disturbava. La disturbava? Era un rischio. Ma, no, perché un rischio?, la disturbava solamente, erano un avvertimento, ma! no, perché un avvertimento?”
“rifletté sulla crudele necessità di amare. Rifletté sulla malignità del nostro desiderio di essere felici. Rifletté sulla ferocia con la quale desideriamo giocare.”
“qualcosa di simile alla felicità, non era ancora odio, ma una volontà tormentata di odio simile a un desiderio”
Amore e odio, paura della verità, il bello che attrae e spaventa e poi tanta solitudine, anche questa cercata e fuggita al tempo stesso, ma alla quale i personaggi si votano per poter sopravvivere:
“«Sono sola al mondo! Nessuno mai mi aiuterà, nessuno mai mi vorrà bene! Sono sola al mondo!»”
“tutto quello che sentiva restava prigioniero dentro il suo petto, in quel petto che sapeva solo rassegnarsi, solo sopportare, solo chiedere perdono, che sapeva solo perdonare, che aveva imparato soltanto a possedere la dolcezza dell’infelicità, che aveva imparato solo ad amare, amare, amare. Pensò che non sarebbe mai riuscita a tradurre in azione quell’odio di cui era sempre stato fatto il suo perdono.”


mercoledì 27 aprile 2016

Non si può capire tutto subito.



...siamo ridicoli, superficiali, 
non cattive abitudini, ci annoiamo, non sappiamo osservare, non sappiamo comprendere, siamo tutti della stessa pasta, tutti, sia voi sia io, sia loro! Ecco non vi offendete se vi dico in faccia che siete ridicoli? E se è così, non è vero che siete materia viva? Sapete, secondo me, essere ridicoli a volte è bene, persino meglio: è più facile perdonarsi l'un l'altro, è più facile riconciliarsi. Non si può capire tutto subito, non si può cominciare dalla perfezione! Ci sono tante cose da non capire prima di raggiungere la perfezione! Quando si capisce troppo in fretta, non si capisce bene.

[Fëdor Dostoevskij -  "L'Idiota"]




sabato 23 aprile 2016

Fëdor Dostoevskij – L’idiota



Tra Leonardo e Brunelleschi 
 

C’è uno scienziato chino sul microscopio del suo laboratorio, intento ad osservare un preparato. Ogni tanto regola la messa a fuoco dello strumento, cambia l’obiettivo, sposta di pochi millimetri il vetrino. Sbuffa, si stropiccia gli occhi e poi li alza verso il cielo. Non è soddisfatto, c’è qualcosa che manca.
Allora si alza. Va a cercare qualcosa tra gli scaffali, apre e chiude sportelli, rovista nei vari scomparti, poi estrae una boccetta di liquido colorato. Torna al microscopio, inforca gli occhiali, poi con una pipetta preleva con attenzione del liquido dal contenitore e ne lascia cadere una sola goccia sul preparato, quindi riprende ad osservare.
Ora finalmente va bene, e lo scienziato un po’ guarda attraverso le lenti del microscopio e un po’ trascrive su un taccuino quello che i suoi occhi vedono.
Lo scienziato si chiama Fëdor Dostoevskij, il preparato che sta osservando è l’umanità e la goccia caduta sul vetrino il principe Myškin.

Una goccia importante, una sostanza in grado di cambiare le carte in tavola, di attirarle a sé con una forza magnetica. Una goccia che si chiama bellezza.
“L’idea principale del romanzo è quella di rappresentare una natura umana pienamente bella. Non c’è niente di più difficile al mondo, e specialmente oggi. Tutti gli scrittori, non soltanto russi, ma anche tutti gli europei, che si sono accinti alla rappresentazione di un carattere bello e allo stesso tempo positivo, hanno sempre dovuto rinunciare. Giacché si tratta di un compito smisurato. Il bello è un ideale, e l’ideale – sia il nostro sia quello dell’Europa civilizzata – è ben lontano dall’essere stato elaborato.
Al mondo c’è stato soltanto un personaggio bello e positivo, Cristo, tantoché l’apparizione di questo personaggio smisuratamente, incommensurabilmente bello costituisce naturalmente un miracolo senza fine. (Tutto il Vangelo di Giovanni è concepito in questo senso: egli trova tutto il miracolo nella sola incarnazione, nella sola apparizione del bello.) Ma mi sono spinto troppo lontano. Dirò soltanto che tra tutti i personaggi umanamente belli della letteratura cristiana il più completo e perfetto è Don Chisciotte. Ma Don Chisciotte è bello unicamente perché è allo stesso tempo ridicolo.”
Così scrive l’autore in una lettera alla nipote Sofja Aleksandrovna Ivanova, datata gennaio 1868.
L’Idiota è quindi un grande romanzo sulla Bellezza: quella bellezza che attrae e respinge, troppo grande, troppo potente, troppo ingombrante per poter essere compresa davvero, Bellezza simile a un veliero sul quale ci si può imbarcare ma che non possiamo pensare di governare.
E il principe Myškin incarna questa bellezza. Un essere diverso da tutti gli altri, che vive in un mondo suo, dove le classi sociali, le convenzioni, il denaro non hanno nessuna importanza. Un uomo buono, sensibile, onesto, incapace di mentire, che agisce senza fare calcoli, che vede la bontà e la buona fede in tutti, che è attirato dalla sofferenza e che ama il suo peggior nemico. Un uomo che considera la compassione “la più importante e forse l'unica legge di vita di tutta l'umanità” al punto da portarla fino alle estreme conseguenze e che ha il dono di leggere nell’animo di quella gente che vorrebbe aiutare a vivere meglio (“scusate, principe, - dice ad un certo punto uno dei personaggi del romanzo - ma voi siete di una semplicità, di un'innocenza che neanche nell'età dell'oro, e nello stesso tempo, tutt'a un tratto, con una profondissima penetrazione psicologica, trapassate la gente da parte a parte, come una freccia”). Un uomo che in un mondo come il nostro è inesorabilmente destinato a soccombere.
Questo per quanto riguarda il contenuto. Da un punto di vista formale possiamo osservare come nell’Idiota si realizzi alla perfezione quella polifonia di cui parla Bachitn a proposito del romanzo dostoevskijano: Parfen Rogožin, Ganja Ardalionovic, Kolja, Ippolit e soprattutto Aglaja Epančina e Nastas’ja Filippovna… la personalità di ogni personaggio emerge attraverso dialoghi e interazioni che permettono di caratterizzarli in maniera compiuta.
Due paragoni mi ha fatto venire in mente la lettura dell’Idiota: quello tra la polifonia nella storia del romanzo e l’invenzione della prospettiva nella storia dell’arte, e quello tra lo “sfumato” leonardesco e l’attenzione che Dostoevskij dedica ai dettagli, alle contraddizioni, ai “doppi pensieri”, alla passione, al contrasto verità/bellezza, alle nuances dell’amore, alle mille pieghe dell’animo umano.