Angelo
Calvisi, direttore della fotografia.
Clandestini
è una raccolta di racconti eterogenea per forma e contenuti. Storie scritte
nell’arco di anni e spesso legate a un vincolo tematico richiesto dal blog o
dalla rivista che poi le hanno pubblicate.
Storie
diverse anche per il valore letterario (alcune più riuscite ed altre
probabilmente meno), che pure ci permettono uno sguardo anche sul Calvisi
scrittore di racconti.
Diciamo
subito che, ad oggi, ho apprezzato maggiormente le sue qualità come autore di
romanzi brevi sia in Un mucchio di giorni così che in Adieu mon coeur, ma anche
alla prova di una forma narrativa diversa dimostra di cavarsela bene e
soprattutto di saperne risolvere i problemi tecnici connessi con apparente semplicità.
Le storie
di Clandestini sono tutte narrate con stile diretto in prima persona presente
(mi sembra che solo in un racconto l’autore usi l’imperfetto) e caratterizzate
da un incipit in grado di attirare da subito l’attenzione del lettore
(caratteristica fondamentale nelle short stories), un buono sviluppo della vicenda
e un climax che per il mio gusto a volte è un po’ troppo vicino alla
conclusione. Ma al di là di certi formalismi è “la misura” quello che mi sembra
uno dei tratti salienti di questi racconti, l’equilibrio tra la scorrevolezza
di una scrittura che procede sicura, senza sbavature e una narrazione che
alterna accadimenti, dialoghi, osservazioni e divagazioni senza perdere il filo
di una trama che alla fine si risolve
con naturalezza, senza forzature.
Angelo
Calvisi, direttore della fotografia, si diceva nel titolo. Già, più direttore
della fotografia che regista, perché le storie che racconta sembrano avere vita
propria, svilupparsi autonomamente come un film che scorre sotto i nostri
occhi. Calvisi fotografa le scene e poi traduce in parole i fotogrammi: impresa
tutt’altro che banale, soprattutto perché riesce a rendere con poche pennellate
impressioni, attimi, momenti di vita che trasforma in suggestioni cariche di
possibilità (L’acqua è scura, calma, ci sono dei barconi che trasportano
tronchi e sulla riva soffia un’aria fresca. È una scena che trasmette un’idea
di inevitabilità, e non sono in grado di descriverla meglio, scrive in Missione
a Berlino di un redattore suicida).
Calvisi
scrive quello che vede (parafrasando il protagonista del primo racconto della
raccolta, che, in un incipit che ricorda Il Grande Freddo, tira fuori il
bloc-notes nel bel mezzo di un funerale e scrive: il mio stato d’animo sono le
cose che vedo) ed è un vedere senza pre-concetti, finalizzato non tanto a
formarsi opinioni quanto a provare a capire. La curiosità è il primum movens
dell’autore, curiosità che trasforma la routine di un cooperatore sociale o di
un commesso di un negozio di dischi in qualcosa di diverso: dietro ogni persona
c’è un personaggio, e Calvisi ce lo
restituisce nella sua “unicità”.
È la curiosità che porta i personaggi di
Clandestini a interrogarsi su ogni cosa,
anche sul significato delle parole (come fa il protagonista di Giornata
tipo di uno strenuo cooperatore sociale che tornando a casa si chiede se quelli dell’autobus fossero proprio
vagoni e Come si chiamava il nastro di spessa gomma nera che separava le due
ante delle porte? E le porte dell’autobus si chiamavano veramente porte?), la
stessa curiosità che abbiamo quando da bambini andiamo alla scoperta del mondo
e che poi perdiamo (o nascondiamo) crescendo,
perché la consideriamo un sinonimo di immaturità, un segno di debolezza.
C’è
un’ultima osservazione che voglio fare su questo brevissimo libro (si legge,
cronometrato, in un’ora) ed è relativa all’ultimo racconto, Missione a Berlino
di un redattore suicida, che mi ha colpito particolarmente: una trama
originale, straniante e surreale, con il protagonista che alla fine finisce per
svanire all’interno della storia che ha raccontato. Un racconto diverso da
tutti gli altri, ma perfettamente riuscito, a dimostrazione delle capacità
dell’autore di esprimersi al meglio anche con registri narrativi differenti.