domenica 31 luglio 2016

Samuel Beckett – Più pene che pane






Belacqua: il proto-Murphy
Racconti prescindibili, che non mi sembrano aggiungere nulla di fondamentale alla lettura dell’opera di Beckett.
Qualche spunto qua e là: la figura di Belacqua come precursore di quel personaggio di più alto spessore che sarà Murphy, qualche abbozzo di temi che saranno messi a fuoco in opere più mature, l’attenzione all’aspetto fisico delle figure, alle loro menomazioni fisiche e non solo… E poi c’è un racconto, quello sì che mi è sembrato più riuscito degli altri, che mi sembra indicare la direzione (o una delle direzioni) verso la quale si indirizzerà la ricerca di Beckett.
Parlo di Giallo, racconto nel quale il conflitto interiore del protagonista viene messo a fuoco con maggiore evidenza rispetto alle altre novelle che compongono questa raccolta. Qui Belacqua si rende conto di non poter fingere con se stesso ed è costretto ad ammettere di non avere il controllo totale sui suoi ragionamenti; le idee possono entrare nella sua mente nonostante lui, anche se non è pronto a riceverle. Come difendersi da questa incursione non calcolata, dalla consapevolezza di non essere quella monade che credeva? Contrapponendo, follemente, all’idea un’emozione adatta, quella che crede possa meglio combattere il nuovo con cui è chiamato a confrontarsi. L’arma che Belacqua sceglie per difendersi non è la rabbia e neppure l’indifferenza, ma l’ironia: armare la mente di risate e poi far entrare l’idea e ridurla a pezzetti. Questa la dichiarazione d’intenti di Belacqua, destinata ad essere ripresa con ben altro successo nelle opere più mature (il riso che si oppone all’assurdità della realtà). Ben altro successo perché in Giallo l’ironia non servirà granché al protagonista, condannato a morire rapidamente sotto quei ferri del chirurgo che aveva vanamente tentato di esorcizzare.

mercoledì 27 luglio 2016

Maschere



I
come ricordava Bruno, «persona» vuol dire maschera e ognuno ha molte maschere: quella di padre, quella di professore, quella di amante. Ma qual era la vera? E ce n’era realmente una vera? In alcuni momenti pensava che l’Alejandra che ora vedeva lí, che rideva alle battute di Quique, non era, non poteva essere la stessa che conosceva lui e, soprattutto, non poteva essere la piú intima, meravigliosa e terribile Alejandra che lui amava. Ma spesso (e col passare delle settimane se ne convinse sempre di piú) tendeva a pensare, come Bruno, che tutte le maschere erano vere e che anche quel viso-boutique era autentico e in qualche modo esprimeva una delle anime di Alejandra: quella che gli era estranea, forse non era la sola.

II
Sempre, diceva, portiamo la maschera, una maschera che non è mai la stessa, e cambia per ognuna delle parti che ci ha assegnato la vita: quella del professore, dell’amante, dell’intellettuale, del marito ingannato, dell’eroe, del fratello affettuoso. Ma quale maschera rimane quando si è soli, quando crediamo che nessuno, nessuno, ci osservi, ci controlli, ci ascolti, ci comandi, ci supplichi, ci diffidi, ci attacchi? Forse il carattere sacro di quel momento è dovuto al fatto che l’uomo si trova di fronte alla Divinità, o per lo - meno davanti alla propria implacabile coscienza.


[Ernesto Sabato: "Sopra eroi e tombe"]

sabato 23 luglio 2016

Rivka Galchen – Innovazioni americane



Storytellers generazione 2.0

Nella mia mappa degli scrittori di racconti statunitensi, Rivka Galchen (con Chris Adrian ed Aimee Bender, tra gli altri), si inserisce nella scia degli epigoni di George Saunders, frequentatori cioè di un realismo magico scritto tra (molte) virgolette, perché declinato da ognuno degli interpreti in maniera personale, con cambiamenti di stile e di ispirazione da racconto a racconto.
Questo vale anche per  Innovazioni americane, una raccolta piuttosto eterogenea nella quale si alternano storie dall’impianto “classico” ad altre decisamente surreali. Succede così di imbattersi in oggetti che decidono di abbandonare la casa che li ospita (C’era una volta un impero, racconto che mi ha fatto pensare addirittura a Felisberto Hernandez), frigoriferi che si riempiono da soli (Mercato immobiliare), donne alle quali spunta una mammella sul dorso (Innovazioni americane) o personaggi che viaggiano nel tempo (La zona della dissimilitudine), accanto a questi troviamo poi racconti decisamente diversi, come il bellissimo Blu frutti di bosco, con la descrizione del sentimento amoroso visto con gli occhi e descritto attraverso le parole di una bambina: il suo inaspettato accendersi, la fiamma che brucia alta e potente e poi si spegne in un attimo.
Galchen, come A. Bender, sembra voler ampliare lo spettro della narrazione, mettendo reale e fantastico sullo stesso piano, lascandoli poi interagire come se non ci fosse contraddizione. Emblematico, a questo, proposito è il primo racconto della serie, L’ordine perduto, nel quale la narrazione sembra procedere in maniera piuttosto lineare, con la protagonista che riesce a sfuggire la realtà fino a che il marito non la mette davanti all’evidenza. È a questo punto che si produce una specie di collisione tra la verità che la donna racconta, quella che immagina e quella che propone il marito, sorprendentemente l’autrice sceglie di non far deflagrare il conflitto ma di risolverlo sfumandolo nell’assurdo (Chissà, forse in questo rapporto la sognatrice sono proprio io. Forse sono il l’uomo), quasi un sollevarsi in un volo chagalliano sulle cose.