sabato 23 luglio 2016

Rivka Galchen – Innovazioni americane



Storytellers generazione 2.0

Nella mia mappa degli scrittori di racconti statunitensi, Rivka Galchen (con Chris Adrian ed Aimee Bender, tra gli altri), si inserisce nella scia degli epigoni di George Saunders, frequentatori cioè di un realismo magico scritto tra (molte) virgolette, perché declinato da ognuno degli interpreti in maniera personale, con cambiamenti di stile e di ispirazione da racconto a racconto.
Questo vale anche per  Innovazioni americane, una raccolta piuttosto eterogenea nella quale si alternano storie dall’impianto “classico” ad altre decisamente surreali. Succede così di imbattersi in oggetti che decidono di abbandonare la casa che li ospita (C’era una volta un impero, racconto che mi ha fatto pensare addirittura a Felisberto Hernandez), frigoriferi che si riempiono da soli (Mercato immobiliare), donne alle quali spunta una mammella sul dorso (Innovazioni americane) o personaggi che viaggiano nel tempo (La zona della dissimilitudine), accanto a questi troviamo poi racconti decisamente diversi, come il bellissimo Blu frutti di bosco, con la descrizione del sentimento amoroso visto con gli occhi e descritto attraverso le parole di una bambina: il suo inaspettato accendersi, la fiamma che brucia alta e potente e poi si spegne in un attimo.
Galchen, come A. Bender, sembra voler ampliare lo spettro della narrazione, mettendo reale e fantastico sullo stesso piano, lascandoli poi interagire come se non ci fosse contraddizione. Emblematico, a questo, proposito è il primo racconto della serie, L’ordine perduto, nel quale la narrazione sembra procedere in maniera piuttosto lineare, con la protagonista che riesce a sfuggire la realtà fino a che il marito non la mette davanti all’evidenza. È a questo punto che si produce una specie di collisione tra la verità che la donna racconta, quella che immagina e quella che propone il marito, sorprendentemente l’autrice sceglie di non far deflagrare il conflitto ma di risolverlo sfumandolo nell’assurdo (Chissà, forse in questo rapporto la sognatrice sono proprio io. Forse sono il l’uomo), quasi un sollevarsi in un volo chagalliano sulle cose.

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