sabato 15 aprile 2017

Luigi Serafini – Codex Seraphinanus


 “Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione.“

E non solo. Dopo la lettura del Codex, potremmo integrare la definizione di genio data dal grande Perozzi in questa maniera: genio è (anche) capacità di inventare qualcosa di nuovo partendo da un materiale strausato.
Parliamo del materiale-libro in una delle sue varianti più noiose: l’enciclopedia.
Già, il Codex è più di un triplo salto mortale senza rete, più di una scalata di un ottomila, più di un salto dalle cascate del Niagara dentro ad una botte, più…, più. Con il Codex  Serafini sfida le leggi della narrativa e le stravolge scrivendo un libro stranissimo, nel quale l’iconografia mescola immagini di fantasia con altre riconoscibili ma usate fuori dal loro contesto abituale e la scrittura è in una lingua asemica, fatta di segni che si ripetono, di maiuscole e minuscole, di tratti in grassetto, quasi a indicare la presenza di regole che pure sono destinate a rimanerci sconosciute.
Non comprendete le tavole che vi propongo? – sembra dirci l’autore – Nessun problema, ecco in calce la spiegazione. Peccato che anch’essa rimanga fuori dalla nostra portata, in una specie di gioco che da una parte ci attira e dall’altra ci rimbalza, ci spinge a cercare di comprendere e poi ci nasconde gli strumenti necessari.  
Uno scherzo? Forse, ma non solo.
Un passatempo per bibliofili un po’ snob? Sicuramente.
Un modo di épater le bourgeois? Possibile.
Il Codex è tutto questo e anche molto di più: un libro da leggere con il cuore di un bambino e la testa di un adulto, camminando in bilico tra sonno e veglia, fantasia e ragione. Forse quello che ci chiede il Codex non è capire, spiegare, dare un senso, trovare una trama, procedendo in linea retta dall’inizio alla fine… ma lasciarci andare, seguire il ritmo, la nostra musica, aggirandoci tra le pagine del libro come tra i fiori di un prato, lasciandoci colpire da una figura, da un accostamento di immagini, da un gesto.
Rimettere il lettore al centro. Suscitare emozioni, ricordi, pensieri. Far vivere un’immaginazione troppo spesso tenuta controllata da mille regole, questo credo sia lo scopo del Codex

domenica 2 aprile 2017

Clarice Lispector - Acqua viva




A caccia di farfalle con il retino bucato

Un libro coraggioso. Un monologo in forma di lettera nel quale Lispector sceglie la strada rischiosa del flusso di coscienza camminando sul ciglio dell’illeggibilità: poca trama, pensieri espressi in frasi brevi e a volte disordinate, ad indicarne la frammentarietà.
Parafrasando l’epigrafe, una citazione di Seuphor relativa alla pittura, si può dire che scopo del libro è indagare i misteri della parola, di una scrittura “totalmente libera dalla dipendenza della figura – l’oggetto –, che, come la musica, non illustra nessuna cosa, non racconta una storia e non inaugura un mito.” […] “si accontenta di evocare i regni incomunicabili dello spirito, dove il sogno diventa pensiero, dove il tratto diventa esistenza.”
Se non bastasse, Lispector chiarisce sin dalle prime pagine che quella che attende il lettore è una lettura “estrema”: “sto provando a cogliere la quarta dimensione dell’istante-adesso che da quanto è fuggevole già non è più perché si è appena trasformato in un nuovo istante-adesso che neppure lui è più. Ogni cosa ha un istante in cui è. Voglio impossessarmi dell’è della cosa. Quegli istanti che passano nell’aria che respiro: fuochi d’artificio che esplodono muti nello spazio.” Come a dire: astenersi amanti dell’intreccio, cultori della bella trama, appassionati della logica, qui siamo in un altro campo dove si rincorrono idee che non sappiamo dove ci porteranno, qui si va a caccia di farfalle con il retino bucato.
Il cogliere l’istante di cui parla l’autrice non è tanto rivolto al carpe diem, quanto ad indagare le potenzialità della parola, il suo potere evocativo. Non interessa il significato della frase ma il sommerso, quello che essa è in grado di suscitare.
L’istante è irripetibile e può essere solo vissuto o mostrato, non spiegato. L’istante e soprattutto il suo fluire, quel momento magico che segna un passaggio tra un prima e un dopo, quell’attimo fantastico sospeso in volo tra due certezze, una vibrazione, un momento in cui si avverte come un brivido il pulsare della natura.
Acqua viva è un esercizio di equilibrismo, un camminare in bilico sull’orlo del precipizio: da una parte c’è la realtà, con la sua logica rassicurante, dall’altra la fantasia con il fascino delle regole sovvertite. Indagare le potenzialità della parola, si è detto, rinunciare all’ordine, alla verità, per addentrarsi in un territorio sconosciuto, dove non esistono vincoli. Ogni parola diventa allora un passo nell’ignoto, padrona di se stessa, libera di creare, viaggio verso territori nuovi ma anche all’interno di se stessi.
Acqua viva è parola che si fa pittura e anche musica, per il potere evocativo che Lispector le conferisce nell’aspirazione a penetrare la natura delle cose, a riunire in un unicum armonia e disarmonia, sogno e realtà, immanente e transitorio, desiderio certo irrealizzabile ma che l’Arte non può fare a meno di inseguire.

domenica 26 marzo 2017

"noi andiamo e la bellezza resta"



Ripeto: acqua è uguale a tempo, e l'acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d'acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l'acqua, questa città migliora l'aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell'universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l'eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all'uomo. Lo stesso vale per l'amore, perché anche l'amore è superiore, anch'esso è più grande di chi ama.

[Iosif Brodskij: "Fondamenta degli incurabili"]

sabato 25 marzo 2017

Oswaldo Reynoso - Gli innocenti



 
No, a differenza di quanto afferma Matteo Nucci nella prefazione, il libro che abbiamo in mano non brucia. Almeno non più. Nei quarantacinque anni trascorsi dalla data di pubblicazione la sua carica eversiva si è abbondantemente attenuata e questo, probabilmente, ci permette di apprezzarlo meglio.
Sbiadite via via le patine di scandalo, volgarità, underground, rock, ribellione… rimangono loro: Faccia d’angelo, il principe, Carambola, Rossetto, Ciambella e gli altri “innocenti” che abitano questi racconti. Rimane la voglia di vivere di un gruppo di ragazzi di strada, un microcosmo dal quale gli adulti sono esclusi e che si organizza attraverso le regole del branco. Rimane il conflitto tra voglia e paura di crescere alla svelta, tra desiderio di bruciare le tappe e timore di non essere all’altezza delle circostanze. Rimane l’occhio accondiscendente di Reynoso, che descrive questi giovani in balia della vita “dal di dentro”, mettendosi in mezzo a loro, parlando come parlano loro e “sentendo” come sentono loro, attraverso il tatto, il gusto, l’olfatto, raccontandoci le loro emozioni, le loro paure, le insicurezze di chi cammina sul ciglio del precipizio senza comprenderne il rischio.
Rimane, soprattutto, la grande empatia dell’autore, che guarda a questi bambini che vorrebbero essere uomini cercando a modo suo di proteggerli, come a fare le veci di un padre che manca: “Sei triste perché sai che un ragazzo come te può perdersi”, dice al protagonista dell’ultimo racconto. “Tu invece vuoi essere bravo: lo so. Se hai sbagliato è per via della tua famiglia, povera e rovinata, per la tua quinta, caotica e degradata; per il tuo quartiere, che è un vero inferno; e per la tua Lima. Perché ovunque a Lima la tentazione ti divora: biliardi, cinema, scommesse, bar. E i soldi. Soprattutto i soldi, bisogna trovarli a tutti i costi. Ma io so che sei bravo e che un giorno troverai un cuore all’altezza della tua innocenza.

sabato 18 marzo 2017

Marina Cvetaeva – Le notti fiorentine

  
“s'i' fosse foco…”


Le notti fiorentine è una raccolta di lettere datate 1922, nove scritte dalla Cvetaeva a Abram Višnjak, proprietario della casa editrice Gelikon, e una indirizzata da lui a lei. Lettere che se non aggiungono nulla al valore poetico della scrittrice, qualcosa ci dicono sulla sua personalità e sui meccanismi alla base della vena creativa della grande poetessa russa. Una personalità che si nutriva di passioni, che ne aveva bisogno per costruire su di esse il castello della sua costruzione letteraria. La grande poesia per nascere necessitava di un grande fuoco che l’accendesse, una pira sulla quale la Cvetaeva immolava ogni bene e soprattutto se stessa con una dedizione totale alla causa (“ho sempre preferito far dormire piuttosto che togliere il sonno, nutrire piuttosto togliere l’appetito, far riflettere piuttosto che perdere la testa. Ho sempre preferito dare a togliere, dare a ricevere, dare – ad avere.”, scrive nella Lettera Ottava). Passioni che erano vere finché erano in grado di incendiarle l’animo, e pazienza se alla fine quello che lasciavano erano solo cicatrici e macerie bruciate (“è soltanto perché cerco di vivere.” – scrive nella Lettera Nona – “Vivere vuol dire tagliare e infallibilmente sbagliare e poi rattoppare. Ogni volta che cerco di vivere mi sento una misera sartina che non confezionerà mai niente di bello, che riesce soltanto a far guasti e ferirsi, e che lasciando all’improvviso tutto – forbici, pezze, rocchetto – si mette a cantare.”): il grande dolore o la grande delusione che subentravano alla fine di un grande amore erano anch’essi materiale potente, destinato a diventare Arte sublime nelle mani sapienti della Cvetaeva.
Concetti questi espressi molto bene da Sergej Efron, il marito dell’artista, in una lettera del 1924 a Maksimilian Vološin:
Marina è una creatura di passioni.” – scrive Efron – “Gettarsi a capofitto nell’uragano è divenuto per lei necessità, aria della sua vita. Chi sia oggi la causa scatenante dell’uragano — non importa. Quasi sempre (oggi esattamente come prima), anzi, sempre, tutto è costruito sull’autoinganno. Una persona viene inventata, e comincia l’uragano. Se la nullità, la mediocrità della causa scatenante vengono scoperte presto, Marina si abbandona a un’altrettanto uraganesca disperazione. È una condizione, la sua, che si allevia solo con la comparsa di un nuovo amore. Cosa — non importa, importa il come. Non la sostanza, non la fonte, ma il ritmo, il ritmo indemoniato. Oggi disperazione, domani entusiasmo, amore, nuovo gettarsi anima e corpo, e il giorno dopo, di nuovo, disperazione. E tutto questo in presenza di un’intelligenza acuta, fredda, starei per dire cinicamente voltairiana. Le cause scatenanti di ieri, oggi vengono derise in modo spiritoso e crudele (quasi sempre a ragione). Tutto viene trascritto in un libro. Tutto si riversa tranquillamente, con matematica precisione, in una formula. Come una grandissima stufa che, per funzionare, ha bisogno di legna, legna, legna. La cenere inutile viene gettata via, e la qualità della legna non è importante. Finché il tiraggio è buono, tutto si trasforma in fiamma.”