“s'i' fosse foco…”
Le notti fiorentine è una
raccolta di lettere datate 1922, nove scritte dalla Cvetaeva a Abram Višnjak,
proprietario della casa editrice Gelikon, e una indirizzata da lui a lei.
Lettere che se non aggiungono nulla al valore poetico della scrittrice,
qualcosa ci dicono sulla sua personalità e sui meccanismi alla base della vena
creativa della grande poetessa russa. Una personalità che si nutriva di
passioni, che ne aveva bisogno per costruire su di esse il castello della sua
costruzione letteraria. La grande poesia per nascere necessitava di un grande
fuoco che l’accendesse, una pira sulla quale la Cvetaeva immolava ogni bene e
soprattutto se stessa con una dedizione totale alla causa (“ho sempre preferito far dormire piuttosto
che togliere il sonno, nutrire piuttosto togliere l’appetito, far riflettere piuttosto
che perdere la testa. Ho sempre preferito dare a togliere, dare a ricevere,
dare – ad avere.”, scrive nella Lettera Ottava). Passioni che erano vere
finché erano in grado di incendiarle l’animo, e pazienza se alla fine quello
che lasciavano erano solo cicatrici e macerie bruciate (“è soltanto perché cerco di vivere.” – scrive nella Lettera Nona – “Vivere vuol dire tagliare e infallibilmente
sbagliare e poi rattoppare. Ogni volta che cerco di vivere mi sento una misera
sartina che non confezionerà mai niente di bello, che riesce soltanto a far
guasti e ferirsi, e che lasciando all’improvviso tutto – forbici, pezze,
rocchetto – si mette a cantare.”): il grande dolore o la grande delusione
che subentravano alla fine di un grande amore erano anch’essi materiale
potente, destinato a diventare Arte sublime nelle mani sapienti della Cvetaeva.
Concetti questi espressi molto bene da Sergej
Efron, il marito dell’artista, in una lettera del 1924 a Maksimilian Vološin:
“Marina è
una creatura di passioni.” – scrive Efron – “Gettarsi a capofitto nell’uragano è divenuto per lei necessità, aria
della sua vita. Chi sia oggi la causa scatenante dell’uragano — non importa.
Quasi sempre (oggi esattamente come prima), anzi, sempre, tutto è costruito
sull’autoinganno. Una persona viene inventata, e comincia l’uragano. Se la
nullità, la mediocrità della causa scatenante vengono scoperte presto, Marina
si abbandona a un’altrettanto uraganesca disperazione. È una condizione, la
sua, che si allevia solo con la comparsa di un nuovo amore. Cosa — non importa,
importa il come. Non la sostanza, non la fonte, ma il ritmo, il ritmo
indemoniato. Oggi disperazione, domani entusiasmo, amore, nuovo gettarsi anima
e corpo, e il giorno dopo, di nuovo, disperazione. E tutto questo in presenza
di un’intelligenza acuta, fredda, starei per dire cinicamente voltairiana. Le
cause scatenanti di ieri, oggi vengono derise in modo spiritoso e crudele
(quasi sempre a ragione). Tutto viene trascritto in un libro. Tutto si riversa
tranquillamente, con matematica precisione, in una formula. Come una
grandissima stufa che, per funzionare, ha bisogno di legna, legna, legna. La
cenere inutile viene gettata via, e la qualità della legna non è importante.
Finché il tiraggio è buono, tutto si trasforma in fiamma.”
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