domenica 10 luglio 2022

Trilogia della guerra – Agustín Fernández Mallo

 


«solo dai contorni più esterni, dai bordi estremi, è possibile arrivare a comprendere cosa siano le cose. Si tratta di un principio universale che vale anche per ciascuno di noi, pertanto dobbiamo allontanarci dalla nostra vita se vogliamo vedere che contorno, che sagoma ha il vissuto, […] e solo allora, è possibile definire "una vita intera".»

Opera divisa in tre libri, tre racconti distinti ma collegati da una rete sotterranea frutto di una macchina narrativa che Mallo congegna con perizia, inserendosi di prepotenza in quel ramo del Postmoderno che gemma dalla figura di W.G. Sebald e sembra avere al momento in M. Énard il suo esponente più rappresentativo.
I personaggi dell'opera ci portano a spasso per l'isola di San Símon, in Galizia, per le strade di New York, Miami, Los Angeles, ma anche a Cuba o lungo le coste della Normandia. Storie di moderni flâneur, che nel loro vagabondare fotografano, annusano, ascoltano, raccolgono indizi, coincidenze, simmetrie invisibili, che seguono come segugi per costruire trame che poggiano sul terreno di una guerra: quella civile spagnola, quella del Vietnam, lo sbarco in Normandia.
Storie dalle quali germogliano altre storie, nelle quali si incontrano personaggi di fantasia o reali inseriti fuori dal loro contesto e che probabilmente finiscono per confondere il lettore. Una confusione organizzata? In parte sì, ma tutto è lecito quando il risultato finale è un romanzo di altissimo livello, nel quale la guerra, il male, sono presenze costanti, l'humus sul quale germogliano pensieri, riflessioni, tentativi di tirarsi fuori da sabbie mobili dalle quali non è mai possibile affrancarsi completamente.
La memoria contro l'oblio, quindi; partendo da una frase del poeta Carlos Oroza che si ripete come un mantra per tutta la narrazione («É un errore dare per scontato ciò che fu contemplato») per dire che il passato continua a vivere nel presente. Ma non solo, perché l'altro (il vero) motore del racconto è l'immaginazione, la capacità di inventare mondi paralleli, la «trasposizione (cartarescuana?) di persone e oggetti del nostro mondo in altri leggermente deviati», curvando a piacimento le linee di spazio e tempo per dialogare, ad esempio, con García Lorca e Salvador Dalí al Central Park.
Trilogia della guerra è una pianta che guarda in alto verso l'Amore, un amore puro e totale, ma con le radici ben piantate – di nuovo – nel terreno della guerra.
Una critica dall'interno della società contemporanea, della cultura dell'effimero che propone i modelli della bellezza artificiosa, della contraffazione del corpo e dell'oblio del passato, alla quale Mallo contrappone provocatoriamente un'"estetica della spazzatura" e un nuovo umanesimo che invece di cancellare l'idea della morte, le ritaglia un ruolo centrale.
«improvvisamente penso agli epiloghi, non avevo mai pensato agli epiloghi delle cose, a ciò che sta oltre le cose, e penso […]che ogni cosa degna di esistere è stata creata per essere vista almeno due volte […], e quanto più si pensa a quel libro o a quel film, maggiori sono gli epiloghi che si sovrappongono, starti e strati di epiloghi, un'unica pila di epiloghi che si sommano senza interferire l'uno con l'altro. […] M chiedo: qual è l'epilogo di una città? O meglio ancora: qual è l'epilogo di un paese? Sospetto che l'epilogo dei paesi sia costituito da tutti i racconti, le storie più o meno fantastiche e i miti che le generazioni, una dopo l'altra, raccontano di quei paesi. Per dirlo in altro modo, sono la parte immaginaria già insita nelle cose che esistono»
«Il fatto è che la realtà è massimamente disordinata, non percepiamo mai le cose nella loro corretta sequenza temporale, per questo, anche quando parliamo o scriviamo, non rispettiamo l'ordine cronologico. La vita è un incidente aerei elevato all'ennesima potenza, la vita è una grande catastrofe, l'incidente definitivo, ed è con quel disordine che la raccontiamo.»

domenica 19 giugno 2022

Riaffiorano le terre inabissate – M. John Harrison



Un libro strano. Non è tanto la trama – per quanto ricca – il centro del racconto, quanto l'atmosfera che Harrison sa creare, un clima di attesa, straniamento, confusione. Come confusi sono i due protagonisti, persone che arrivate alla mezza età realizzano di non aver costruito nulla e ora non sanno dove dirigere le loro vite. Uno, Shaw, accetta il primo impiego che gli capita ("non un vero lavoro, quello che ultimamente hanno tutti"), l'altra, Victoria ("piena ma anche sprovvista di aspettative"), abbandona Londra per la campagna delle Midlands.
Anime alla deriva perse in un'architettura urbana che sembra svilupparsi senza un piano preciso, quasi ad elevare la provvisorietà a sistema, entrambi saranno destinati ad incontrare sul loro percorso personaggi bizzarri, con parti oscure che aprono sul mistero ed entrambi affronteranno queste situazioni come esperienze normali, senza approfondire più di tanto, senza provare davvero a capire chi siano quegli uomini-pesce, creature atlantidee che fanno capolino dietro ogni loro incontro.
Toccherebbe a Shaw e Victoria il compito di tirare le reti che l'autore ha calato nel romanzo e portare alla luce il significato, ma loro non lo fanno e proprio in questa postura rinunciataria sta un degli aspetti importanti del libro. Viene da pensare che forse Shaw e Victoria siamo noi, abitanti di questi strani anni, incapaci di indagare la realtà che abbiamo davanti o forse troppo confusi per provare a farlo. Prigionieri nella nostra bolla, incapaci di condividere e aprirci all'altro, eppure condannati ad andare avanti ("gli sembrava sempre di non avere colto un messaggio d'importanza cardinale", scrive Harrison a proposito di Shaw. E più avanti, riferendosi ad un altro personaggio: "era un uomo in cerca di motivazioni: non le trovava mai eppure agiva).
Andare avanti, perché non si può fare altrimenti; così i personaggi di Harrison (noi) si rassegnano a fare i passeggeri di un autobus che non sanno dove conduca e da chi sia guidato, limitandosi a guardare ogni tanto fuori dal finestrino concedendosi qualche sospiro, a volte di rimpianto, spesso per abitudine.


 

 


domenica 12 giugno 2022

La presa di Izmail – Mikhail Shishkin

 


Il Giudizio Universale.

Romanzo difficile da approcciare. Sin da subito si ha l'impressione di infilarsi in un ginepraio e di perdere l'orientamento, al punto che dopo le prime ottanta pagine sono dovuto tornare all'inizio per cercare di ricostruire pazientemente la trama, provando ad entrare in sintonia con la penna di Shishkin.
Si parte con un'arringa di tribunale che mette in dubbio i concetti di colpa, giustizia e verità e che costituisce il tema narrativo principale del romanzo, ma che subito si complica coinvolgendo il pantheon delle divinità slave in una specie di teoria della creazione attualizzata alla scopo di individuare il senso della vita. Di qui in poi la trama esplode, si frammenta in salti temporali e cambi di prospettiva, con la voce narrante che cambia nome lasciandoci nel dubbio se sia sempre la solita. Si alternano citazioni e riferimenti colti, personaggi mitologici, storici e di fantasia, la trama risulta spezzettata in una serie di episodi, descrizioni che a volte rimangono in sospeso e a volte sono riprese da un altro punto di vista. La presa di Izmail è una matassa di fili colorati, orchestrata con una pluralità di registri e stili in un'interpretazione personale del post-moderno dove la disgregazione della struttura narrativa sembra aprire nuove vie alla forma romanzo.
A Shishkin non interessa spiegare e nemmeno dare continuità alla storia, si limita a fornirci i materiali su quali riflettere, mostrandoci una teoria di situazioni alle quali i personaggi del romanzo provano ad attribuire un significato, cercando colpevoli per morti e sofferenze che risultano tanto inutili quanto inevitabili.
Cos'è la giustizia? E cos'è la verità? Impossibile da dire, soprattutto quando la realtà del sogno finisce per confondersi con quella della vita. Siamo in un territorio strano, dominato da uno straniamento esistenziale venato da un'ironia amara. Tutto è instabile, provvisorio, mutevole, al punto che il solo appiglio per questo viaggio dentro la coscienza (individuale e collettiva) sembra essere la scrittura. Unico porto franco diventa, forse, quello dell'immaginazione con la quale è possibile disegnare un mondo che soddisfi le nostre regole, quelle stesse regole che nella vita vera diventano inapplicabili perché la realtà è fatta di interpretazioni, punti di vista e la verità una chimera che continua a farsi beffe dell'uomo.
La presa di Izmail è un lungo processo alla Russia, per non dire all'umanità tutta.

«è proprio quella la grandezza della letteratura che si rispetti: non solo svelarci ciò che non esiste, ma anche ciò che non potremmo arrivar a concepire.»
[Augustin Fernández Mallo: Teoria della guerra]

sabato 28 maggio 2022

Zona – Mathias Énard



«A volte ci sono istanti sospesi, tra due momenti, nell'aria, nell'eternità, una danza spalla contro spalla, il movimento di una mano, la scia di una barca, l'umanità alla ricerca della felicità, e poi tutto ricade, tutto ricade»

Un viaggio in treno tra Milano e Roma. L'ultimo viaggio di Francis Servain Mirković alias Yvan Deroy, un combattente e poi una spia e un trafficante che ha preso parte in maniera diretta o indiretta alle ultime guerre combattute nella zona compresa tra i Balcani e il Medioriente. La Zona: uno spazio geografico ma anche ideale, "la zona grigia, quelle delle ombre e dei manipolatori".
Un viaggio a ritroso tra le guerre che hanno insanguinato il Mediterraneo, dai tempi di Omero ai giorni nostri. Le guerre, la guerra. Tutte diverse e tutte uguali, con il loro carico di orrori e di inutilità. La guerra come destino, stigma, vizio del quale l'uomo non riesce a fare a meno.
Un racconto che è un lungo monologo, un viaggio nella memoria di un uomo figlio del suo tempo, che ha fatto quello che ha fatto spinto dalla sete di denaro, sesso, potere, "la santa Trinità del case officer".
L'inevitabilità sembra essere la cifra del romanzo, una descrizione di fatti, misfatti e bestialità ai quali il protagonista ha partecipato e per i quali non sembra provare particolare pentimento, al punto da commuoversi solo per le vicende del libro che sta leggendo, perfetta rappresentazione della liquidità di un'epoca in cui fiction e vita reale sembrano sfumare una nell'altra. "Mi inoltravo nella Zona senza passione ma senza disgusto, con una curiosità crescente per gli intrighi degli dèi irati" – dice Francis Mirković, come se il fatto di essere una pedina di un gioco che si ripete da sempre fosse sufficiente ad assolverlo dai suoi peccati, perché oggi come ieri – sembra dire Énard – siamo alla mercé dei capricci di Zeus, di Era e di Ares, perché ogni guerra è la guerra di Troia che si ripete.
Se la trama di Zona scorre per mano all'Iliade, lo stile è invece derivato direttamente da Sebald, con riferimenti e casualità (le "strizzatine d'occhio della storia", le definisce Énard), incroci che richiamano altri avvenimenti e costruiscono un percorso narrativo che mescola vicende accadute in tempi diversi.
Zona è una danza macabra, un girotondo intorno alla morte e all'inutilità per cui si muore, perché alla fine di ogni guerra arriverà sempre la ramazza del Tempo a cancellare il ricordi dei morti e i motivi per cui si sono sacrificati.

domenica 8 maggio 2022

Teorie della comprensione profonda delle cose – Alfredo Palomba

 


«Alla fine si fallisce tutti. Siamo fisiologicamente destinati al fallimento»

Un aspirante poeta accecato dall'invidia e dal rancore per i successi dell'ex-amico, un blogger "estremo" e disturbato, un donchisciotte mezzo tossico che si improvvisa cavaliere errante, un trentacinquenne con problemi relazionali che finirà a fare il combattente islamista, un piccolo genio dodicenne (topos letterario un po' abusato), questa è la variopinta compagnia di giro che anima le pagine del libro di Palomba, un'opera che si aggira dalle parti del postmoderno e che – a mio avviso – alterna buone idee ad altre meno buone.
Ottimo il titolo, ottima l'idea di base che regge la trama e lo sviluppo della stessa attraverso il racconto di come ognuno dei protagonisti non riesca a rapportarsi con il mondo se non attraverso un filtro che finisce per interpretare la realtà in maniera personale costringendoli, di fatto, a vivere all'interno di una bolla.
Quello che non mi convince è invece il mancato sviluppo dei caratteri: non c'è evoluzione dei personaggi e la storia sembra svilupparsi in modo orizzontale con rari approfondimenti (che peraltro, quando presenti, risultano anche interessanti). Sembra che l'autore voglia dimostrare di saper fare tante cose, forse troppe, con il rischio che non tutto risulta allo stesso livello: eccellente, ad esempio, e ben inserita nel contesto la parte dove viene citato Athanasius Kircher (una tecnica che mescola la finzione con aneddoti storici e che mi ricorda quella di Énard), ma francamente sciatto e al limite del ridicolo il capitolo nel quale Toni e l'editore discutono al tavolino del bar di Paesone.
Ecco, forse è proprio la chiave ironica verso cui vira il romanzo la cosa che mi ha convinto di meno, come se Palomba stesso ad un certo punto scegliesse la strada più semplice, decidendo di non prendersi troppo sul serio, di non crederci fino in fondo.