mercoledì 29 maggio 2013

Vita e sogno


La tragedia principale della mia vita è, come ogni tragedia, un'ironia del Destino. Rifiuto la vita reale come una condanna; rifiuto il sogno come una liberazione ignobile. Ma vivo la parte più sordida e più quotidiana della vita reale; e vivo la parte più intensa e più costante del sogno. Sono come uno schiavo che si ubriaca durante il riposo: due miserie in un unico corpo.
Sì, vedo nitidamente, con la chiarezza con la quale i lampi della ragione fanno risaltare dall'oscurità della vita gli oggetti vicini che ce la raffigurano, quanto di vile, di stracco, di abbandonato e di fittizio c'è in questa Rua dos Douradores, che è per me la vita intera: quest'ufficio sordido di gente fino al midollo, la mia camera affittata al mese, dove non succede niente di interessante oltre il fatto che ci vive un morto, questa drogheria dell'angolo di cui conosco il padrone come ci si conosce fra persone, quei ragazzi sulla porta dell'antica taverna, quest'inutilità laboriosa di giorni tutti uguali, questa ripetizione persistente degli stessi personaggi come un dramma che consista solo nello scenario e lo scenario sia alla rovescia...
Ma vedo anche che fuggire da tutto questo significherebbe dominarlo o ripudiarlo, e io non lo domino perché non lo travalico all'interno della realtà, e non lo ripudio perché, qualunque cosa sogni, rimango sempre dove sono.
E il sogno, la vergogna di fuggire verso me stesso, la codardia di avere come vita quella spazzatura dell'animo che gli altri hanno soltanto nel sonno, nella immagine della morte attraverso la quale russano, nella tranquillità, che li fa sembrare dei vegetali progrediti! Non poter avere un gesto nobile che non sia fatto in privato né un desiderio inutile che non sia veramente inutile!
Cesare definì bene l'ambizione quando disse: "Meglio il primo nel villaggio che il secondo a Roma!" Io non sono niente né nel villaggio né in nessuna Roma. Almeno il droghiere dell'angolo è stimato in un raggio che va da Rua da Assuncào fino a Rua da Viteria; è il Cesare di un rione. Sono forse superiore a lui? E in che cosa mai, visto che il niente non presuppone superiorità né inferiorità né paragone? Lui è il Cesare di tutto un rione, e giustamente le donne lo apprezzano.
E così, facendo quello che non voglio fare e sognando quello che non posso avere, trascino la mia vita [...], assurda come un orologio civico fermo.
Quella sensibilità tenue ma ferma, il sogno lungo ma cosciente [...] che costituisce nel suo insieme il mio privilegio di penombra.

[Fernando Pessoa: "Il libro dell'Inquietudine"]

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