sabato 22 agosto 2015

Mircea Cărtărescu – Abbacinante. Il corpo.

Volare fuori, volare dentro. Comunque volare.

Libri belli ne ho letti parecchi, anche quest'anno. Storie intriganti, scritture originali...questo però è diverso. Qui entriamo in un territorio dove la trama e lo stile rappresentano solo una parte e nemmeno la più importante. Siamo nel campo delle opere destinate a rimanere, quelle che lasciano un segno: qui siamo dalle parti di Infinite Jest, tanto per capirci (pur con tutti i distinguo del caso).
Accade che la lettura di Abbacinante. Il corpo ti faccia sentire un privilegiato, come se fin dalle prime pagine fossi toccato da qualcosa di grande del quale vorresti far partecipi tutti, per vedere se anche a loro farà la stesso effetto. Ti è già successo, l'ha già provato qualche volta (poche volte) e sai perfettamente che è inutile cercare di definirlo. La letteratura c'entra, ma c'è anche dell'altro, c'è di più, qualcosa che ha a che fare con la capacità dello scrittore di toccare con le parole qualche ingranaggio dentro di te che credevi arrugginito, riuscendo a mettere in movimento la vecchia macchina del pensiero immaginifico con la quale non giocavi più da tanto tempo.
Credo che le opere più riuscite siano quelle che nascono da un bisogno dell'autore, libri scritti più per se stessi che per il lettore. Certo, gli ultimi Roth o Saramago (sono i primi nomi che mi vengono in mente) sono ottimi anche se il mestiere sembra avere un ruolo preponderante rispetto all'ispirazione, ma stiamo parlando di Roth e Saramago... Qui la tensione che muove la trama si sente tutta e Cărtărescu sembra assecondarla senza preoccuparsi troppo dei suoi compagni di viaggio, rincorrendo una storia che sembra attirare lui e noi come la luce le falene, avvolgendolo e avvolgendoci sempre di più nelle sue spire.Abbacinante. Il corpo non è un libro semplice, anche dal punto di vista stilistico: frasi lunghe, pochissimi a capo, passaggi di luogo e tempo improvvisi alternati a lunghe descrizioni della fisiologia del cervello o a dotte dissertazioni sembrerebbero costituire una barriera tra autore e lettori ma in realtà sono al servizio della storia. Non è possibile semplificare all'estremo, a volte la complessità è necessaria se vogliamo provare a capire. L'aspirazione dell'autore, folle e per questo affascinante, è quella di decrittare nuovamente il mondo, perché l'interpretazione che ne abbiamo dato finora è parziale e fallace e per farlo dobbiamo provare a trascendere la nostra natura umana.
Abbacinante. Il corpo può essere letto in molti modi, io lo vedo come una specie di esperimento di fisica nucleare nel quale Cărtărescu prende l'emotività e la potenza di sognatore di un bambino e la manda a sbattere a tutta velocità contro la capacità di razionalizzare dell'adulto, provando a descrivere cosa scaturisce da questo impatto e quello che si sprigiona è un misto di fuochi d'artificio e di energia stupefacenti. Un viaggio vertiginoso dove surreale, poetico, postmoderno, meta-narrazione e chissà quant'altro si intrecciano, dove il reale si confonde con la finzione e il ricordo con la fantasia. Un viaggio fatto di donne che indossano le ali per volare vicino alla luce, di uomini che si evirano per mondarsi dalle pulsioni della natura e avvicinare la verità, tappeti che si trasformano e diventano mondi interi e poi ancora: nani del circo, uomini serpente, personaggi che escono da un portone a Bucarest per trovarsi in un quadro ad Amsterdam, uomini-statua e statue-uomo e poi simboli, tanti simboli (sfera, spirale, conchiglia, ascensore, bozzolo, crisalide, farfalla)... difficile dar conto di tutto.
Un viaggio fatto di parole, che Cărtărescu utilizza come grimaldello per forzare la vita, per trovare un'uscita da questa scatola nella quale siamo costretti, una porta che ci permetta di entrare e uscire dal mondo a nostro piacimento. Un viaggio folle ,realizzabile solo grazie alla scrittura, l'unica in grado di fornirci le ali necessarie a volare fuori dal mondo e dentro di noi e di farci dimenticare per un po' che in realtà siamo solo pagine di un libro già scritto.

In ultimo (confido del fatto che nessuno mi avrà seguito sino al termine di questa sconclusionata recensione), c'è una nota personale che vorrei aggiungere: Abbacinante. Il corpo è anche un libro pericoloso. Perché allontana. Ti attira dentro con la forza di una calamita, ti porta in un altrove fatto di sogni e parole e così facendo ti allontana, fatalmente, dagli altri. E questo, almeno per me, è pericoloso.
Capita però che a volte passi qualcuno che vede il libro che stai leggendo, lo prenda in mano, alzi un po' il sopracciglio leggendo il nome dell'autore, giri il volume per scorrere velocemente tre righe della quarta di copertina (le prime tre, che arrivare sino alla fine costerebbe troppa fatica) e poi, visto che non è riuscito a farsi un'idea, ti chieda, più per curiosità che per interesse: “Di cosa parla?”. Succede che tu rimanga lì, sospeso tra la voglia di rispondere provocatoriamente “Parla del mondo” e quella, altrettanto maligna, di usare le parole di Cărtărescu “É un libro illeggibile, che non dice nulla, non vuole nulla e non significa nulla”, ma poi decida di provare a imbastire una risposta (breve, brevissima, sia chiaro, che il tuo interlocutore non ha tempo da perdere con un libro) che possa in qualche maniera soddisfarlo o incuriosirlo. Succede però che quando hai terminato la spiegazione e lo guardi per vedere se sei riuscito a comunicargli almeno un milionesimo di quello che la lettura di questo volume ti ha dato, incontri uno sguardo distratto. Il tuo amico è già andato oltre le tue parole, è ancora davanti a te ma non è più lì; ti restituisce il libro come se si trattasse di cibo andato a male e ti dice con tono che vorrebbe essere di ammirazione ma suona invece come compatimento: “Beato te, che trovi il tempo di leggere. Piacerebbe anche a me, ma con tutto quello che devo fare non ci riesco!”.
Ecco, è in questi momenti che sentirsi lontano invece che pericoloso diventa piacevole.

sabato 15 agosto 2015

Per Olov Enquist – Il libro delle parabole


Difficile appiccicare un'etichetta a questo libro: non è un romanzo, non sono racconti e nemmeno apologhi, forse pensieri sparsi, frammenti. Parabole. 
Parabole per orientarsi nella nebbia della vita, per provare a capire perché si è vissuto, cercando di mettere un po' d'ordine in quello che è successo pur sapendo che è impossibile ricostruire quello che manca. In questo senso i nove fogli strappati al taccuino del padre rappresentano il punto d'inizio di una ricerca che appare da subito difficile per non dire impossibile: il senso della vita è nel taccuino? Oppure la soluzione consiste nel cercare, consapevoli che non si arriverà mai a comprendere il mistero? E le nove parabole, rappresentano il tentativo dell'autore di riscrivere le nove pagine mancanti al taccuino del padre? 
Il libro delle parabole è un libro, soprattutto, sull'Amore, al posto di quel romanzo sull'amore che Enquist confessa di non esser mai riuscito a scrivere. Amore e memoria, dunque, con i ricordi che si confondono, si mescolano alle fantasie e diventano altro.
Un'infanzia permeata dalla cupa cupa visione della fede inculcatagli dalla madre porterà Enquist a identificare l'amore (ma anche la poesia, la fantasia e i sogni) con il peccato, visione dalla quale faticherà ad affrancarsi continuando per un bel pezzo a identificarlo con l'idea di proibito, di possesso, di una specie di apostasia. La conversione della zia all'amore terreno, contrapposto a quello celeste, farà nascere in Enquist i primi dubbi che esploderanno poi nell'episodio della donna sul pavimento senza nodi, la parabola che rappresenta il centro nevralgico dell'intero libro. 
La scoperta del sesso, l'amore contrapposto alla fede, l'amore ineluttabile, che può far paura al punto da spingere alla fuga ma dal quale non ci si può liberare, l'amore come illuminazione, scoperta di un'intimità condivisa che permette di lasciar cadere le difese e di abbandonarsi all'altro, l'amore come luogo intimo da difendere e ricordare, la cui forza non si può comprendere fino in fondo eppure si deve provare a farlo. L'amore che illumina le nebbie della vita, amore totale, incondizionato, che non lega ma anzi lascia liberi, talmente grande e sacro da poter dire che forse Dio e Amore sono la stessa cosa.

sabato 8 agosto 2015

Ian McEwan – Espiazione



It's not my cup of tea

L’alta ombra fresca del bosco le fu di sollievo, l’intrico scultoreo dei tronchi le parve incantevole. Superato il cancelletto di ferro, e la siepe di rododendri, attraversò il prato aperto - venduto a un allevatore locale come terra da pascolo - per risalire alle spalle della fontana con il suo muro di sostegno e la riproduzione in scala del Tritone del Bernini il cui originale era a Roma in piazza Barberini. La figura muscolosa, accomodata sulla conchiglia, riusciva a schizzare un getto alto pochi centimetri appena, la pressione era troppo bassa, e l’acqua ricadeva sulla testa della statua, colando sulla chioma di pietra e lungo il solco della possente spina dorsale su cui lasciava una lucida chiazza verde scuro. In questo ostile clima settentrionale, il Tritone era molto lontano da Roma, ma rimaneva bellissimo nella luce chiara del mattino, come del resto erano belli i quattro delfini che sostenevano la conca lambita dai flutti su cui riposava. Cecilia osservò le improbabili scaglie sul dorso dei delfini e sulle cosce del Tritone, prima di volgersi verso la casa.”

Ecco cosa intendo. Una scrittura lenta, ampollosa, pesante e manierata. Periodi lunghi, descrizioni particolareggiate ed eccessive che per quanto possano essere eleganti e raffinate non mi invogliano nemmeno un po'. Esagero? Vedete un po' voi:

Entrò, attraversò di fretta l’ingresso a piastrelle bianche e nere - com’era familiare il suono dei suoi passi, com'era irritante - e fece una sosta per prendere fiato sulla soglia del salone. Gocciolandole acqua fredda sui piedi calzati di sandali, il mazzo sparso di epilobi e iris le restituì uno stato d’animo un poco più allegro. Il vaso che stava cercando era su un tavolo in ciliegio accanto alla porta finestra socchiusa. A causa dell’esposizione a sud-est della stanza, alcuni parallelogrammi dorati di luce mattutina avanzavano sul tappeto blu polvere. Il respiro di Cecilia si fece più calmo mentre aumentava il suo desiderio di una sigaretta. Esitò un istante sulla porta, momentaneamente immobilizzata dalla perfezione della scena, e restò lì, accanto ai tre divani sbiaditi disposti intorno al camino gotico quasi nuovo con la sua riserva di falaschi invernali, vicino al clavicembalo stonato che nessuno suonava e agli inutili leggii in palissandro, ai tendoni in velluto, morbidamente raccolti da un cordone intrecciato arancio e blu, a incorniciare un cielo vuoto di nuvole e la terrazza a chiazze gialle e grigie tra le cui lastre di pietra crescevano camomilla e partenio.”

Ok, la smetto. È che tutto questo grondare di aggettivi, l'attenzione maniacale ai dettagli unita a un evidente sfoggio di erudizione, sanno un po' troppo di narcisismo, di auto-compiacimento. Ed è un peccato.
Perché il mestiere c'è e si vede tutto: i personaggi sono tratteggiati attraverso i loro comportamenti, ognuno è ben caratterizzato sin da subito. È interessante, ad esempio, come la piccola Briony osservi quello che succede intorno a lei e lo interpreti (fraintendendo spesso) attraverso le lenti del suo ricchissimo mondo interiore, preparando il terreno per quello che sarà il dramma successivo. Purtroppo l'eccessivo controllo dell'azione e il continuo lavoro di cesello dell'autore saranno magari utili a produrre pagine godibili di bello stile, ma tolgono – a mio avviso – emotività al racconto, che finisce per essere molto “cerebrale”, frenato, povero di passione, per cui fatico a provare empatia per i protagonisti della storia.
Mi sembra di notare anche una certa discontinuità nel ritmo della narrazione: ad una prima parte che si presenta – come detto – lenta e descrittiva, ne segue una seconda sorprendentemente scorrevole e avvincente (quella che racconta le vicende di guerra), ad essa però ne segue una terza che inizia con una stucchevole descrizione della vita di Briony come infermiera e poi si riaccende improvvisamente con un finale che chiude (anche troppo rapidamente) tutte le parentesi che erano rimaste aperte.
Peccato, perché anche la conclusione presenta un mescolarsi di narrazione e metanarrazione che è idea attuale e indubbiamente interessante ma purtroppo è al servizio di una trama che non mi ha convinto più di tanto.
Peccato, perché il tema dei rischi del "narrativismo" (se questa era l'intenzione dell'autore) è attualissimo e stimolante e probabilmente avrebbe meritato uno sviluppo più articolato.


sabato 1 agosto 2015

Tommy Wieringa – Joe Speedboat


In mezzo a fenomeni che costruiscono e decostruiscono il romanzo, post-moderni e realisti, minimalisti e realvisceralisti, strutturalisti e stilnovisti... ogni tanto c'è bisogno di una pausa: ogni tanto c'è bisogno anche dei Tommy Wieringa.
Una prosa “scoppiettante”, una penna che corre veloce, leggera, senza orpelli (sembra quasi di trovarsi in un romanzo nordamericano), Wieringa parla la lingua semplice e diretta degli adolescenti, secondo la lezione di Salinger declinata in una delle mille variazioni.
Un romanzo di formazione che racconta il mondo, la vita vista attraverso gli occhi di un ragazzino, la carica di energia e di idee di un adolescente costretto su una sedia a rotelle da uno spaventoso incidente, fatto che rende più forte, più carico di tensione, il suo tentativo di spiccare il volo.
Un romanzo “a colori”, la storia di una scombinata combriccola di ragazzini raccolti attorno a Joe Speedboat, il protagonista che vive nel presente e in eterno movimento, sempre alla ricerca di un altrove, di un'identità, della libertà
...niente mi sembrava più impossibile al cospetto di quella grande anima serena, […] Intendo dire, aveva solo quindici anni, allora, e davanti a sé un intero mondo di idee potenzialmente dirompenti, da realizzare con l'imperturbabilità di un riparatore di biciclette.
Non era tanto un ragazzo fuori dal comune, era una forza che si liberava. Sentivi il brivido dell'avventura, intorno a lui – c'era energia che prendeva forma nelle sue mani. […] Non avevo mai conosciuto nessuno per cui il passaggio dall'idea alla realizzazione fosse così ovvio, nessuno così poco condizionato dalla paura e dalle convenzioni. Osava pensare l'impossibile, senza accorgersi del rifiuto che non mancava di provocare alle sue spalle. Perché a molti Joe non piaceva, c'erano troppe cose incomprensibili in lui. La maggior parte elle persone è mediocre, in alcuni casi addirittura meschina, ma sono tutte molto sensibili alla più alta concentrazione di energia e di talento che si riscontra in chi è superiore alla media. Se non possono avere ciò che ti illumina, non puoi averlo neanche tu. Non hanno nessun talento per l'ammirazione, solo per la sudditanza e l'invidia. Sono ladri di luce.”
Una compagnia di giro fatta di figure indimenticabili: Fransje Hermans, Frans “il braccio”, il ragazzino paraplegico di cui abbiamo già detto, voce narrante e campione di braccio di ferro, Christof Maandag, l'ansioso e indeciso rampollo di una ricca famiglia del posto proprietaria dell'Asfalti Betlemme, Engel Eleved, angelo di nome e di fatto, PJ Eilander, “la puttana del secolo”, esotica afrikaaner completamente priva di coscienza. E poi ancora: la taccola Mercoledì, Regina e India Ratzinger, rispettivamente mamma e sorella di Joe, e l'egiziano, secondo marito di Regina e poi mille altri ancora.
Un caleidoscopio che ruota vorticosamente, un circo di personaggi che nella cittadina di Lomark da luogo a una serie di strampalate avventure, dalla costruzione da parte dei ragazzi di un aereo alla fuga in barca dell'egiziano, dalla carriera di campione di braccio di ferro di Fran alla Parigi-Dakar in escavatore di Joe. L'aereo, la barca l'escavatore...simboli, tanti simboli che incarnano la speranza associata alla volontà, il tentativo adolescenziale di dare realtà al sogno.
Se posso evidenziare un paio di pecche nel romanzo, direi che la prima è che con il progredire della trama Wieringa da l'impressione di faticare un po' a seguire tutti i protagonisti, per cui sceglie di concentrare l'attenzione solo sui principali per recuperare gli altri nel corso della storia, mentre la seconda è relativa al fatto che il passaggio generazionale dei ragazzi non mi sembra particolarmente approfondito come forse avrebbe meritato: Joe, soprattutto, è un personaggio che non “evolve”, probabilmente è una scelta voluta (“come avrebbe potuto diventare qualcosa, lui che era già qualcosa: era Joe, un prodotto finito, perfetto, della sua stessa immaginazione”), ma l'impressione che ho avuto è stata quella di uno sviluppo della trama non perfettamente omogeneo.