C’è la
superficie, costituita da una comunità che si aiuta e collabora nelle piccole
cose del quotidiano, e un sommerso, fatto da quello che è successo o che
avrebbe potuto succedere, episodi che hanno segnato la vita dei personaggi,
ferite che continuano a far male e che hanno reso le persone più dure o più
fragili, comunque diverse da prima.
Uomini e,
soprattutto, donne, ai quali manca qualcosa: si sono accontentati, o avrebbero
voluto farlo. Persone che sembrano aver perso l’occasione, il momento giusto
per la felicità. Già, la felicità, che ora identificano con la normalità, una
normalità che non hanno mai avuto o che hanno perso e sentono di non poter più
raggiungere.
Il limite di Benedizione, a mio avviso, è nell’architettura
un po’ troppo “rigida” del romanzo: i brevi capitoli sono concepiti quasi come
un racconto a sé (per certi versi come in Winesburg,
Ohio) e costruiti ognuno attorno ad un personaggio del quale viene esposto,
con prosa scarna ed essenziale, un episodio della vita attraverso un’alternanza
di dialoghi, descrizioni d’ambiente e riflessioni che si ripetono forse un po’
troppo schematicamente.
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