carverismi
Ho difficoltà a
esprimere un giudizio su questi racconti, complessivamente ben scritti eppure
privi in parecchi casi di una loro identità.
Racconti che
mettono al centro gente che non ce l’ha fatta: che ci ha provato e ha fallito,
che ci ha provato per un po’ e poi si è accontentata o che non ha potuto
nemmeno provarci. Sfortunati, falliti, vite in stand by, uomini rimasti ai
margini di un mondo che procede dritto per la sua strada, rami secchi che il
fiume ha spinto verso la riva destinati a non raggiungere mai il mare. Esistenze
segnate da qualcosa che a un certo punto si è rotto e che ora faticano a
costruirsi un presente, un rapporto con gli altri.
Storie che
parlano di gente che per tutta la vita ha cercato di nascondere la polvere
sotto il tappeto e che di colpo si trova a dover fare i conti con la realtà, e
non si tratta di conti semplici. Storie di difficoltà a comunicare, di problemi
di empatia, di incapacità a dare o ricevere affetto. Storie di persone disilluse,
costrette dalla vita ad abbassare l’asticella delle loro aspettative e che
adesso aspirano alla normalità più che ad una felicità che sembra ormai una
chimera. Una normalità fatta di sentimenti condivisi, di calore umano, di quell’amore
che sembra correre via come un treno in corsa sul quale è difficile salire, ma
dal quale è facilissimo cadere.
Tutto bene?
Mica tanto.
Per cominciare
direi che se mi fossi fermato alla quarta di copertina non avrei mai letto
questo libro: in solo sette righe ci sono tre mostri sacri come Flannery O’Connor,
George Saunders e Raymond Carver tirati fuori completamente a sproposito (almeno i primi due, perché il terzo merita un
discorso a parte) e poi un invito alla lettura che secondo me non c’entra
niente, ma proprio niente, con questi racconti: Questo libro è per chi sogna di viaggiare su un furgoncino Volkswagen
in compagnia di un labrador nero, per chi ama i film di Wes Anderson e il
deserto di Bagdad Café, e per chi a volte teme di essere un pazzo ma in realtà
è caduto in un cerchio magico da cui riuscirà prima o poi a uscire.
A prescindere poi
da come è presentato il libro, quello che ho trovato poco convincente è stato l’uso
troppo “scoperto” di certi stereotipi: i riti di passaggio (Il ragazzo che sparisce), il genio
bambino (La geometria della disperazione)
usato prima da Salinger e poi diventato cliché, la persona priva di un arto (Il braccio) che ricorda un racconto di
F. O’Connor, la perdita di un figlio… A
questo aggiungerei che alcuni racconti mi sono sembrati un po’ troppo “didascalici”,
ma soprattutto che un po’ in tutta la raccolta (ad eccezioni di un paio di
racconti attraversati da una vene surreale, come Il lupo e Il bambino che
brilla, e che per questo sembrano un po’ dei corpi estranei) si nota un “carverismo”
fin troppo di maniera, nel senso che Poissant riprende ambientazione e stile
dell’originale senza però svilupparli in modo personale (come invece fa Kevin
Canty, per fare un esempio). L’imitazione di Carver in certi racconti diventa “totale”:
dalla costruzione della frase, ai dialoghi, all’alternarsi di descrizioni d’ambiente
con improvvise focalizzazioni su dettagli minimi, al non detto, alle piccole incrinature
nei rapporti tra i personaggi che lasciano intuire voragini… Carverismo ai
massimi livelli, ma, appunto, -ismo.
Peccato perché quando
l’autore lascia la strada maestra dimostra di saper camminare anche le proprie
gambe. L’ultimo racconto, quello che da il titolo alla raccolta, è una specie
di on the road in solitaria, la storia di un vinto che non può fare a meno di
combattere, una corsa del protagonista contro il tempo sapendo già che il tempo
non potrà essere sconfitto. Un racconto nel quale Poissant abbandona il
carverismo di stretta osservanza per uno stile più lirico, più personale. Più
vero.
Complessivamente
ho trovato Il paradiso degli animali
un prodotto ben confezionato, il problema è che “prodotto” non è esattamente un
termine a cui mi piace pensare quando parlo di libri.
Nessun commento:
Posta un commento