Con l’avvento di Pietroburgo comincia ad esistere una letteratura russa” (Iosif Brodskij – Fuga da Bisanzio)
Libro per tutti gli amanti della Palmira del Nord
e per gli appassionati bibliofili, che in queste pagine troveranno una puntuale
descrizione di come Pietroburgo è stata raccontata dai grandi scrittori russi e
anche un’analisi dei luoghi che hanno fatto da sfondo alle vicende narrate da
Dostoevskij nei suoi romanzi.
Nella prima parte, L’anima di Pietroburgo, l’autore identifica il genius loci con il Cavaliere di Bronzo, la statua equestre di
Pietro il Grande fondatore della città, che troneggia maestosa nella piazza delimitata
sui quattro lati dalla cattedrale di Sant’Isacco, l’Ammiragliato, gli edifici
del Sinodo e del Senato e dalla Neva e che incarna perfettamente
quell’equilibrio tra grandezza e tragicità che da sempre accompagna la storia
di Pietroburgo. Per riuscire a penetrare l’anima della città Anciferov
considera dapprima la topografia dei luoghi, la natura (le notti bianche…) e le
impressioni personali, ma si accorge che tutto questo non è sufficiente e quindi
si affida al coro di voci che vengono dalla letteratura e che nel corso degli
anni hanno saputo coglierne di volta in volta alcuni aspetti.
Si parte dal tentativo di Sumarokov di santificare
Pietroburgo (Petropoli… sarai la Roma del
Nord), evitando però pericolose fughe in avanti e tenendola ben salda
nell’alveo della tradizione russa, creando un filone celebrativo nel quale si
inscriveranno con qualche sfumatura anche le opere di Lomonosov, Deržavin, Vjazemskij
e Batjuškov. A superare questa fase didascalica sarà Puškin che darà contenuto
alla forma di chi l’aveva preceduto: il mito di Pietroburgo ha trovato
finalmente profondità e spessore, due gambe possenti su cui reggersi, eppure
proprio adesso che potrebbe cominciare a correre si siede, vittima del
crepuscolo che gli impone la storia. Napoleone, i decabristi, il pugno di verro
zarista… spengono la luce e la Pietroburgo che ritroviamo nei racconti di
Gogol’ diventa lo specchio dei tempi, una città che sfugge all’interpretazione,
nella quale la realtà si mescola con il sogno. È il crollo delle certezze di
Puškin: tutto è inganno, la grandezza lascia malinconicamente il passo alla
tragicità, le notti bianche alle lunghe giornate buie. Pečerin e poi Dmitriev
elaboreranno questi temi spingendoli in un filone apocalittico, quello della
fine di Pietroburgo sommersa dalle acque, rivincita della Natura sull’uomo.
Pietroburgo come città del contrasti, e se di
tragedia e grandezza, di lotta tra uomo e natura e tra giorno e notte abbiamo
detto, è ora il momento di aggiungere qualcosa anche sulla querelle tra occidentalisti
e slavofili (su questo argomento ho trovato esaustivo Il mito di Pietroburgo di E. Lo Gatto). Si parte con Herzen che
condanna la città come un’accozzaglia senza identità simile a quelle europee e che
pure lo affascina per la sua tragicità, e si prosegue con Turgenev che sembra vedere
intorno a sé solo sofferenza e poi con Grigorovič che insiste sul tema del
declino irreversibile della città. A queste voci si oppone Belinskij, che
ribalta completamente quello che sembrava essere il comune sentire e propone un
punto di vista diametralmente opposto a quello in voga: Pietroburgo come
finestra sull’Europa, entità in grado di unire la tradizione con il nuovo, un ponte
tra passato e futuro, simbolo dell’orgoglio di un popolo che vuole rialzare la
testa.
Un fuoco di paglia, perché a questa visione
ottimistica si oppone quella figlia dei tempi di Nekrasov, che in continuità
con Herzen e Turgenev ripropone con forza il tema di una città che corre verso
il nulla, vuota e immersa in una nebbia reale e metaforica.
Originale è poi l’approccio a Pietroburgo di
Belyi, che nel romanzo che le dedica osserva la città da punti di vista diversi
ed inusuali, come vento che si infila in ogni direzione: un racconto visionario
nel quale esplodono luce e colori in un corpo a corpo tra vita e sogno che
finisce per mescolare e confondere i due contendenti. Per Blok Pietroburgo è la
città-mondo con l’attenzione che si concentra soprattutto sugli strati più
umili della popolazione. Sarebbe troppo
lungo dar conto di tutti i punti di vista proposti Anciferov in questo libro,
aggiungeremo solo che per Achmatova Pietroburgo è il luogo dell’anima e per
Majakovskij, figlio del futurismo, la città è invece trasfigurata in una specie
di mostro.
La Pietroburgo di Dostoevskij merita per l’autore
un capitolo a parte, nel quale viene esaminata dapprima la topografia della
città, i luoghi nei quali si svolgono gli avvenimenti dei suoi romanzi. Una
città sospesa sull’acqua, senza radici o punti fermi, nella quale ognuno è solo
con i suoi pensieri e nella quale i personaggi dostoevskijani vagano in
continuazione in una specie di stato febbrile, attirati dalla possibilità di
una vita diversa, in cerca di una via d’uscita alla loro solitudine. Anciferov
punta l’attenzione sul ruolo importante delle case e quello delle finestre
intese come occhi che guardano il mondo, sull’attenzione che Dostoevskij dedica
all’anima fragile della città e sulla ricerca delle zone grigie, di quei contrasti
di cui abbiamo detto e che non possono essere sciolti ma che sono destinati a
rotolare aggrovigliati perché costituiscono la sostanza stessa di Pietroburgo.
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