Non
solo esercizi di stile.
Piccoli
quadri surreali (à la Magritte,
verrebbe da dire) di raffinata eleganza formale. Finestre aperte sugli abissi
dell’anima, brevi scene apparentemente senza peso, rarefatte, che muovono dalle
banalità del quotidiano e che sotto l’aspetto di una finta innocenza celano un
attacco alle strutture del reale, all’ordinario, al consueto. Tentativi di
riappropriarsi dell’incerto, delle zone d’ombra; piacere dell’attesa per l’attesa.
Al
centro c’è l’uomo, ripiegato su se stesso. La sua ricerca di ordine, di
coerenza, di logica, che si scontra con l’elemento esterno, l’imprevisto, l’emozione.
Appuntamenti mancati, ipotesi che potrebbero spiegare, tentativi di
razionalizzare… e che finiscono con l’andare in tutt’altra direzione.
Protagonisti
che sembrano chiusi in scafandri di ferro, personaggi anaffettivi che d’improvviso
si trovano davanti i sentimenti e faticano a decifrarli, perché per leggerli
usano gli strumenti della razionalità. Uomini descritti come viandanti ciechi
che si aggirano smarriti in un mondo di domande senza risposte.
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