Tutti noi sappiamo com’è
un funerale a Santa María…
…Ma questo non lo sapevamo.
C’è molto Onetti in questo racconto. Sembra quasi
di vederlo, il grande maestro, mentre prende una storia come tante, quella della
morte di Rita e del suo caprone, e si dirige verso la finestra, sollevandola
verso l’alto chiudendo prima un occhio e poi l’altro per osservarla in
controluce. Lo seguiamo discreti mentre si avvicina con passo pesante al tavolo
da lavoro, spegne con cura la sigaretta nel portacenere, poi si siede e inserisce
con gesti precisi la storia all’interno del suo caleidoscopio. Lo osserviamo in
silenzio, mentre si toglie gli occhiali, sfrega due dita sugli occhi e poi si piega
sullo strumento, iniziando a maneggiarlo con cura. Non ha fretta di terminare
il lavoro, ogni tanto distoglie lo sguardo e poi si china di nuovo, aggiustando
più volte l’apparecchio fino a quando non è soddisfatto. Solo allora alza la
testa e fa un cenno verso di noi, porgendoci il caleidoscopio e invitandoci finalmente
a guardare. Ed ecco la meraviglia: la storia di Rita e del suo caprone non
esiste più, si è dissolta, scomposta. Al suo posto ci sono le storie: quella di
di Jorge Malabia, quella del suo amico Tito Perotti, quella del dottor Diaz
Grey (chi si rivede!). Al posto della storia di Rita e del suo caprone c’è ora la
storia di Onetti.
Per una tomba senza nome ci parla del bisogno dell’uomo di costruire storie e insieme dell’impossibilità
di approdare con esse a qualcosa di sicuro e definito. Onetti si premura di togliere
al lettore qualsiasi appiglio, facendo piazza pulita di ogni certezza, a
cominciare dallo scenario che sceglie per fare da sfondo agli avvenimenti, un’estate
bugiarda che incarna “le illusorie
promesse di tante estati precedenti”, per proseguire con gli stessi
personaggi, uomini che percorrono la strada della vita trascinandosi dietro il
loro bagaglio di contraddizioni. Contraddittorio è il ragazzo, Jorge, spaccone
e vigliacco al tempo stesso, che fugge quell’onda che racconta di voler
cavalcare. Contraddittorio è il dottore, cinico e solitario, una monade che
osserva il mondo come se lui ne fosse da tempo al di fuori.
“Nessuno può
capire”, dice ad un certo punto il giovane. Ma nessuno può smettere di
provare a capire, a cercare di costruire la sua storia.
E allora avanti, con quell’insieme di fatti,
reticenze, interpretazioni e menzogne di cui ogni storia che si rispetti è
impastata. Brandelli, perché come dice Jorge “i brandelli che mi si presentavano via via erano ben separati da ogni
brandello precedente, soprattutto dal tempo e dalle cose che avevo fatto negli
intervalli tra uno e l’altro. Non ho mai veramente veduto lo storia nella sua
completezza. […] Tutti i brandelli sella storia che riuscii a ricordare mi
servivano soltanto ad attizzare la mia pietà, a restare in quelle ore dell’alba
nel punto esatto della sofferenza che mi faceva felice; un poco al di qua delle
lacrime, che mi sentivo nascere dentro e non uscire. […] E neppure quando
parlavo con Tito della storia sono riuscito a sentirla come una cosa completa,
con il suo ordine illusorio, ma implacabile, come qualcosa con un principio e
una fine, come qualcosa di vero, insomma.”
Quel che resta, alla fine, quando dopo aver
guardato nel caleidoscopio lo restituiamo nelle mani di Onetti, è nulla, come
ci dice lo stesso dottor Diaz Grey, “una
confusione senza speranza, un racconto senza un finale possibile, dai
significati incerti, smentito dagli stessi elementi di cui disponevo per
comporlo”.
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