Non ho mai capito la musica, un’arte che noi non coltiviamo o coltiviamo molto raramente. In realtà non coltiviamo e quindi non comprendiamo quasi nessuna arte. A volte salta fuori, mettiamo, un topo che dipinge, oppure un topo che scrive poesie e inizia a recitarle. Normalmente non ridiamo di lui. Anzi lo commiseriamo, perché sappiamo che la sua vita è votata alla solitudine. Perché alla solitudine? Be’, perché per il nostro popolo l’arte e il godimento dell’opera d’arte sono un esercizio impossibile, per cui le eccezioni, quelli diversi, scarseggiano e se, per esempio, arriva un poeta o un banale declamatore, la cosa più probabile è che non nasca un altro poeta o declamatore fino alla generazione successiva, per cui il poeta si vede privato dell’unico che forse potrebbe apprezzare i suoi sforzi. Questo non vuol dire che la nostra gente non si fermi nella sua frenesia quotidiana ad ascoltarlo e addirittura applaudirlo o non presenti una mozione perché al declamatore sia permesso di vivere senza lavorare. Al contrario, facciamo tutto quello che è nelle nostre possibilità, che non è molto, per dare al diverso una parvenza di comprensione e affetto, perché sappiamo che, in fondo, è un essere bisognoso d’affetto. Alla lunga però tutte le parvenze crollano come un castello di carte. Viviamo nella collettività e la collettività ha bisogno soltanto del lavoro quotidiano, dell’attività costante di ognuno dei suoi membri per un fine che trascende le aspirazioni individuali e che, tuttavia, è l’unico a garantire la nostra esistenza come individui.
[Roberto Bolaño: "Il gaucho insopportabile"]
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