Allora rientrai in casa e scrissi, È mezzanotte.
La pioggia sferza i vetri. Non era mezzanotte- Non pioveva affatto.
Ogni libro di Beckett è come un viaggio verso un
altrove sconosciuto. Ci si entra dentro in punta di piedi, poi si procede
guardandosi intorno con circospezione e quando meno ci se lo aspetta ci si
ritrova persi in mezzo al bosco, senza punti di riferimento che possano
indirizzare il nostro cammino.
Molloy non fa eccezione, anzi è paradigmatico in
questo senso. Beckett introduce da subito il protagonista con una narrazione in
prima persona dal ritmo martellante che attira il lettore nelle spire del
racconto. È nella camera della madre, non sa se lei è morta e da quando. È lì a
scrivere per qualcuno che tutte le settimane viene a prendere i fogli e a
pagarlo per il suo lavoro. Racconta di essere in attesa della fine e che nel
frattempo dimentica a poco a poco tutto quello che gli è successo. Parla della
gente che passa, di uomini senza nome che si incontrano e poi proseguono sulla
loro strada. Persone sole, che vanno seguendo le loro ragioni e poi spariscono.
Parla del suo viaggio alla ricerca della madre e della casa, attraverso una
città che non conosce. Parla e intanto subisce un processo di decomposizione,
invecchia rapidamente, perdendo anche l’uso della gamba buona.
Un viaggio che ricorda quello di Ulisse dove ogni
cosa è deformata come in un quadro di Bacon: l’eroe è un antieroe, l’oceano una
città indefinibile, Nausicaa una Lousse priva di grazia e così via. Un viaggio
allucinante che non approda a nulla, un viaggio al qual succede un altro
viaggio, quello di Moran alla ricerca di Molloy.
Se Molloy è pagato per scrivere, Moran è pagato
per cercare, se Molloy cerca la casa della madre, Moran cerca Molloy, se il
viaggio di Molloy ricorda l’Odissea quello di Moran rammenta a tratti la Bibbia
in un gioco di specchi nel quale Moran sembra un proto-Molloy nel senso che quello
che inizialmente ci viene presentato come il classico borghese finisce per subire
per strada un processo di disfacimento nel fisico e nella mente fino a
diventare quello che Molloy è all’inizio del racconto.
Una narrazione serrata, una spirale che ci
avvolge, la sensazione di finire avvitati in un loop che corre sempre più
veloce, fino a perdere il controllo di quello che succede intorno a noi.
Succede di sentirsi risucchiati da una forza esterna, al centro del vortice
generato dallo sciacquone tirato da una mano sconosciuta, vittime inconsapevoli
di un estremo Infinite Jest.
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