“Per
me, ormai lo sapete, i fati nudi e crudi non significano niente. L’importante è
quello che contengono o quello che comportano; e poi constatare cosa c’è dietro
una cosa e dietro ancora fino al fondo definitivo che non raggiungeremo mai.”
Partiamo
da qui. Da una dichiarazione d’intenti che racchiude l’intera poetica
onettiana, ma che a pensarci bene potrebbe adattarsi anche a uno scrittore
stilisticamente lontanissimo dal maestro latinoamericano come R. Carver, a testimonianza
che spesso i grandi artisti partono da idee condivise che poi sanno sviluppare
in maniera originale.
Partiamo
da qui e diciamolo subito: “Triste come
lei” è un capolavoro, una serie di racconti che vanno dal 1933 al 1974 e
che costituiscono la summa del pensiero di J.C. Onetti.
Qui
dentro ci sono più o meno tutti i temi che lo scrittore uruguaiano ha approfondito nei
romanzi: c’è la necessità di appoggiarsi al sogno e di credere nelle menzogne
per riuscire a sopravvivere nel mondo reale,
e c’è la consapevolezza dell'ineluttabilità del destino, con la conseguente compassione per
gli uomini che si illudono di essere gli artefici delle loro fortune mentre in realtà sono solo i figuranti di una
commedia scritta da altri. C’è il ricordo, che il tempo trasforma in qualcosa di diverso, modificando quello che è stato
in quello che avrebbe potuto essere, e ci sono
il rimpianto e la sconfitta, la solitudine e quel bisogno di espiare al
quale non riusciamo mai a sottrarci, condannati a una pena chiamata vita.
E
poi c’è la scrittura di Onetti: la capacità di dare profondità ai personaggi
attraverso la descrizione di aspetti contradditori del loro carattere e la
bellezza di frasi a volte pesanti come sentenze e altre leggere come
pennellate, frasi apparentemente semplici ma che contengono all’interno una
polverina magica in grado di suscitare immagini e accendere la fantasie del
lettore.
Sembra
di vederlo, il protagonista del “Il volto
della disgrazia”, quando racconta che
“la luce spingeva l’ombra della mia testa fino al bordo del sentiero di sabbia
fra gli arbusti”. E anche la ragazza dello stesso racconto che arrivando in
bicicletta “muoveva con facile lentezza
le gambe, con tranquilla arroganza le gambe riparate da calze grigie”
(facile/lentezza e tranquilla/arroganza…). E ancora: il protagonista che dopo
aver visto la ragazza calcola “che ci
separavano venti metri e meno di trent’anni” e poi rimane a guardare la
morte del sole era gli alberi e che scivola “in un lento sonno, in un mondo oliato e senz’aria, dov’ero stato
condannato ad avanzare, con enorme sforzo e senza voglia, a bocca aperta, verso
l’uscita dove dormiva l’intensa luce indifferente del mattino, irraggiungibile”.
Inutile
proseguire, per quanto mi riguarda con “Triste
come lei” si chiude la mia caccia al più grande narratore di sempre.
Juan
Carlos Onetti è il più grande di tutti.
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