Fotografando
l’anima del tempo.
Con il nuovo millennio la bussola
della letteratura mondiale sembra essersi decisamente spostata verso la Vecchia
Europa: Cărtărescu, Volodine, Gospodinov, Énard, Tom McCarthy… scrittori
accomunati dal fatto di non appartenere a nessuna corrente letteraria comune ma
di seguire ognuno un percorso diverso e personale.
Cărtărescu, Volodine, Gospodinov, Énard,
McCarthy… e David Szalay, potremmo dire adesso, anche se in questo caso si
tratta di un autore europeo solo per parte di padre (ungherese) e nato a Montréal
da madre canadese.
Poco importa, con Tutto quello che è un uomo (il suo
quarto libro e il primo tradotto in Italia), Szalay dimostra di essere
scrittore vero. Osservatore attento della realtà, che filtra ed elabora con
grande capacità di attenzione e poi restituisce con uno stile moderno e
scorrevole, un linguaggio attento al parlato comune (lezione salingeriana?) con
il quale caratterizza bene i personaggi. Attenzione ai particolari, riferimenti
colti alternati ad aspetti del quotidiano, misura perfetta nell’alternanza di
dialoghi e riflessioni, protagonisti che vengono fuori un po’ alla volta,
personalità non esplicitate ma che emergono da quello che dicono e da come si
comportano.
I racconti che compongono questa
raccolta sono istantanee di momenti di vita scattate sulla sfondo di un’Europa
nella quale i protagonisti sono colti in pieno movimento. Uomini in viaggio,
che trovano tanto semplice spostarsi quanto complicato capire la realtà, quello
che succede a loro e intorno a loro. Uomini che hanno smarrito le coordinate
della vita e non sono più in grado di comprenderla. Il campionario è vario:
diciassettenni in cerca di identità e ventenni privi di aspirazioni con un
orizzonte che arriva poco oltre il proprio naso, giovani adulti già temprati da
cinismo ed arrivismo per i quali esiste solo l’interesse personale. E poi,
ancora: vite immolate al dio-lavoro, vite bruciate in caduta libera senza mai
essere decollate e vite che crollano rovinosamente dopo essersi arrampicate
sulle vette del successo. E vite alla fine: che provano a guardarsi con
lucidità alle spalle per cercare un senso in quello che è stato, come quella di
Tony, il protagonista dell’ultimo
racconto. Un senso che però è destinato a sfuggire, come testimonia una poesia
del nipote, Simon, uno dei personaggi del primo racconto della raccolta e che
torna qui quasi a dare un senso circolare a tutto il libro:
“una
passeggera immersione nella trama
dell’esistenza,
l’eterno trascorrere del tempo.”
“Il trascorrere del tempo.” –
pensa Tony – “Ecco che cosa è eterno, che cosa non ha fine. E si palesa
soltanto nell’effetto che esercita su tutto il resto, sicché nella propria impermanenza, tutto il
resto incarna l’unica cosa che non finisce mai.
Sembra quasi un straordinario
paradosso.”
Szalay sembra voler fotografare o
filmare l’anima del nostro tempo, e ci riesce benissimo. Un tempo
contraddittorio, che non sta fermo, che rifiuta di mettersi in posa. Di qui
l’abilità del fotografo che riesce a coglierne l’essenza.
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