Tra gli scrittori di racconti
statunitensi contemporanei, David Means è uno dei due o tre che considero imprescindibili.
Lui, Saunders e D’Ambrosio (ci sarebbero anche Mary Robison e Amy Hampel, ma di
loro ho letto troppo poco). Poi vengono Aimee Bender, Canty, Adrian, Lipsyte…
ma dopo.
Means è Means: scrittura non
particolarmente scorrevole e di impatto non immediato per racconti stranianti e
duri, sia per gli argomenti trattati ma soprattutto per il vuoto interiore dei
personaggi descritti. Un vuoto doloroso, soprattutto emotivo, che li spinge a
muoversi come anime perse nella nebbia. A guidarne i comportamenti non c’è più
la luce della ragione, la morale è diventata una parola svuotata da ogni
significato e loro sono simulacri che vagano nel buio di esistenze vuote,
cercando di afferrare qualcosa usando l’istinto come unica guida. Quello che
balugina nella loro notte sono solo brandelli di sentimenti, qualche emozione,
luci sempre più fioche, sempre più rade.
I racconti de Il punto ci parlano di furti, violenze, rapine, omicidi, di momenti
di svolta che non rappresentano però delle epifanie, ma solo istanti durante i
quali è cambiato o avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. Sono racconti
costruiti con perizia e mestiere: spesso Means ci introduce nella narrazione
come se conoscessimo già i fatti, altre volte omette particolari e
frequentemente la trama si sviluppa su un doppio binario, da un lato quello che
accade e dall’altro quello che i protagonisti pensano. Ecco, mi sembra che uno
dei tratti comuni ai racconti di questa raccolta sia proprio la necessità da
parte dei personaggi di raccontarsi storie
per provare a tenere insieme una
realtà che sembra andare alla deriva.
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