La Grande
Relazione sulla nostra epoca.
Scrivere la Grande Relazione, “il
Libro, la Prima e Ultima parola sulla nostra epoca, dare un nome a ciò che
succede ora”, questo è il compito affidato a U. (you?) dalla società per cui
lavora. Questo è anche l’ambizioso obiettivo che Tom McCarthy affida a Satin Island.
Libro importante, diciamolo sin da
subito, di uno scrittore notevolissimo che segnerà gli anni a venire. Un altro
di quei libri che escono dal postmoderno per aprire la strada del romanzo verso
una direzione che per ora è priva di nome: neo-avanguardismo? post-postmoderno?
Difficile dire, anche perché questo autore sembra battere una strada solitaria,
un territorio che non è ancora una corrente letteraria. Delillo è il nome che
mi viene in mente per fissare un punto di partenza al lavoro di McCarthy, tutto
il resto probabilmente verrà con il tempo.
Satin
Island è un romanzo di idee, nel quale i personaggi
non hanno spessore e la trama serve solo a veicolare i pensieri del
protagonista. Il mondo descritto è quello in cui viviamo adesso, un mondo privo
di un centro, costruito intorno a tanti hub, luoghi di transito, nodi reali o
virtuali che tengono in connessione persone e idee. Siamo dalle parti della società liquida baumaniana: bombardati da miliardi di notizie
attraversiamo confusi le strade di un’epoca segnata dalla parcellizzazione
della realtà. Una a una sono crollate tutte le certezze: la verità è morta,
sostituita dall’opinione (più o meno condivisa).
Vita reale e virtuale si
confondono in un orizzonte fatto di schermi e di link, di immagini che
veicolano concetti contraddittori. McCarthy calca la mano proprio
sull’indeterminatezza e sulla contraddittorietà del nostro tempo, presentando
nel libro situazioni che si prestano a spiegazioni antitetiche ma che teoricamente
potrebbero essere tutte vere. La fuoriuscita di petrolio in mare e la morte di
un paracadutista sono notizie, immagini che si aprono a un ventaglio di
interpretazioni sconfinato: la realtà è diventata una continua e impossibile
interpretazione dei fatti.
È come se di colpo fossero
crollati gli steccati che dividevano i concetti. Le definizioni sono diventate
labili, discutibili e il disordine regna sovrano.
La sfida che McCarthy propone a se
stesso con questo libro è titanica: raccontare la confusione della nostra epoca
dal di dentro è come provare a cavalcare le onde del Pacifico sulla tavola di
un bambino. Gli strumenti a disposizione sono inadeguati, la situazione muta ad
ogni istante e soprattutto non conosciamo la direzione del nostro viaggio,
costretti ad aggrapparci a un generico concetto di futuro in assenza di altri
riferimenti validi. Impresa disperata, eppure McCarthy non cade, dimostrando di
cavarsela più che bene in mare aperto. Non cade anche perché ha coscienza dei
suoi limiti. È consapevole di trovarsi in una specie di loop: analizzare i
meccanismi della società vuol dire analizzare anche se stessi, sapendo di
essere soggetti alle stesse regole che condizionano gli altri, per questo non
va alla ricerca di improbabili uscite di sicurezza ma concentra la sua ricerca
sul tentativo di capire quello che sta accadendo. A questo proposito mi sembra
perfettamente calzante la sua provocazione a proposito della Torre di Babele: “quello
che conta davvero non è il tentativo di raggiungere il cielo, o di parlare la
lingua di Dio. […]Questa torre diventa interessante solo quando ha fallito il
compito che si era assegnata. Il suo valore sta nella sua inutilità. La sua
inutilità la rende operativa: come simbolo, cifra, sprone all’immaginazione,
alla produttività. La prima mossa per qualsiasi strategia di produzione
culturale deve essere liberare le cose – gli oggetti, le situazioni, i sistemi
– permettendo loro di essere inutili.”
Essere dentro alla realtà che si
vuole raccontare significa allora che la Grande Relazione consiste più nel
vivere le cose che nel raccontarle, questa è l’epifania di U. alla ricerca di
una forma per dare voce alla sua ricerca: “ E se il solo fatto di coesistere con quegli oggetti e quella
persona, a lasciare che i miei bordi di sciogliessero tra loro, occupando quel
momento, o più precisamente permettendogli
di occupare me, di asciugarmi e
assorbirmi, invece di trattarli come dati da inserire per una valutazione
futura… E se tutto questo, forse, facesse
parte della Grande Relazione? E se la Relazione in qualche modo, chissà
come, si potesse vivere, o essere, invece che scrivere? […] Mi sembrava che
davanti a me si spalancasse sfolgorante
un nuovo campo, un nuovo regno, tutto un
nuovo Ordine di esperienza antropologica, i cui pezzi scintillavano e ballavano
all’impazzata mentre cominciavano a prendere posizione all’interno di quello
che un giorno, sospettavo, si sarebbe potuto rivelare uno schema stabile e
logico. Nella mia fantasticheria vedevo un futuro nel quale gli etnografi non
scrutavano più nelle viscere morte degli eventi nella speranza di ridurre ai
concetti di base il significato dei propri gesti, e si collocavano invece dentro gli accadimenti e le situazioni mentre si svolgevano – in modo
innocente, avventato soprattutto in diretta – e la loro “partecipazione
dall’interno” trasformava la vita, portando in primo piano la sua vera essenza
in ogni istante, nell’istante, non come sapere futuro ma come istante in quanto tale, che, come un baccello
che matura, travalica i propri confini e si apre, generando senso,
disseminandolo in ogni angolo della terra… Allora la Grande Relazione non
sarebbe stata più qualcosa di prossimo venturo o di portato a termine, passato:
sarebbe stata tutta nel qui e ora.
Antropologia del tempo presente; antropologia come stile di vita. Trovato: Antropologia
del Tempo Presente®; un’antropologia che s’immergeva nella presenza e nella
contemporaneità: vi si immergeva come in una sorgente profonda, spumeggiante e
colma di ninfe.”
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