“…gli era
capitato qualcosa che gli risultava difficile da capire e con cui gli era
difficile anche riconciliarsi. Ed era una sensazione gradualmente crescente di
essere stato messo socialmente fuori gioco. Lo tormentava molto, e gli sembrava
anche stupefacente che dovesse essere così. Ma era come se poco di quanto gli
veniva offerto come essere sociale lo interessasse ancora davvero. Né la
televisione né i giornali riuscivano più a stimolarlo. Sul perché non ci
riuscissero, gli era difficile dare una risposta razionale. Comunque non ci
riuscivano. Spesso cercava di dirsi: Non è poi così male. I giornali hanno sia
notizie che contenuti culturali; di cosa mi lamento in verità? Ed era poi tanto
meglio prima? No che non lo era. La gente si è sempre lamentata dei giornali e
soprattutto della televisione; anch'io. Quando però, la mattina dopo, riapriva
un giornale, provava la stessa sensazione di essere stato lasciato fuori. Le
cose che avrebbero dovuto interessarlo, le notizie del giorno e gli argomenti
culturali non riuscivano a coinvolgerlo abbastanza; sfogliava il giornale e
basta, spesso con un gesto irritato della mano. Lo stesso con la televisione.
Quando si metteva a seguire un dibattito televisivo era uguale. Quello che i
partecipanti dicevano non lo interessava più di tanto, […]
Aveva come la
sensazione di non riuscire più a stare dietro al suo tempo, e nessuno ha mai
avuto quella sensazione senza provarne dolore, forse anche rabbia. Guardava le
immagini di gente che doveva essere famosa e che aveva appunto compiuto questa
o quella impresa; ma il motivo per cui era famosa non gli diceva niente e non
lo impressionava neanche un po'; e il particolare exploit che aveva fatto gli
pareva piuttosto insignificante, mentre quello che per lui era importante
doveva dunque andarselo a cercare come qualcosa di recondito, nel migliore dei
casi. Era il sistema gerarchico dei giornali a indignarlo, e a deprimerlo. Era
che gli opinionisti che influenzavano la società giudicavano e rispecchiavano
la realtà in un modo che sembrava degradare tutto quanto lui rappresentava, che
lo metteva quotidianamente fuori gioco, che lo obbligava ad ammettere che
giornali e televisione significavano per lui il confronto quotidiano con una
personale sconfitta senza fine.[…]
Se c'era
qualcuno che aveva dimostrato la propria fedeltà verso questa società, era lui.
Aveva dedicato sette anni della sua vita agli studi per prepararsi a essere un
pubblico educatore della gioventù norvegese. Dopo di che, per quasi venticinque
anni, aveva avuto come missione quotidiana quella di tramandare alla nuova generazione
l'autocoscienza della nazione e il suo fondamento. Tutto questo l'aveva fatto
del tutto spontaneamente, a occhi aperti, anzi, l'aveva proprio deciso
scegliendo liberamente tra molte altre possibilità a sua disposizione; […]
aveva scelto di studiare filologia per diventare un fedele educatore della
società, per portare avanti quel fondamento su cui tutta la società era, e
doveva essere, basata, […] La sua scelta era stata fatta con cognizione di
causa, tenendo conto della soddisfazione interiore che gli avrebbe dato il suo
lavoro quotidiano di insegnante di scuola superiore, e che quella soddisfazione
avrebbe prodotto una luce interiore che avrebbe reso indifferente il grigiore
che poteva apparire dal di fuori, convinzione che rivelava una fiducia nella
società norvegese e nel suo fondamento che non poteva definire che commovente,
perfino bella, […] Perciò lo feriva profondamente il fatto che i giornali e la
televisione non si rivolgessero evidentemente più a lui e a quelli come lui.
Era come se i nuovi araldi della società non si curassero proprio più di lui.
Al contrario, era come se guardassero ostentatamente al di là di lui, e
addirittura quasi come se provassero una gioia particolare nel farlo. Era
diventato trasparente per loro, come aria, e questo Elias Rukla lo trovava
profondamente offensivo. Che cazzo, pensò, sono un normale essere umano
interessato alla società, con una buona formazione e una capacità di giudizio
complessivamente buona. Sono anche colto. Perché allora sono diventato così
poco interessante per gli opinionisti, che neanche più fanno lo sforzo di
salutarmi? […] Si sentiva sconfitto. Tutto quanto lui rappresentava era stato
cancellato dal linguaggio quotidiano della società. […]
La cosa
peggiore era che gli sembrava di non avere più niente da dire. Se non a se
stesso. Un'epoca era tramontata, e lui era lì a parlare con se stesso. Un'epoca
era tramontata e, con lei, Elias Rukla in quanto essere sociale, perché era
proprio a quell'epoca che lui si era messo a disposizione, quale pubblico
educatore. Aveva poca voglia di diventare educatore di un'epoca nuova, e per
altro neanche aveva le qualifiche per farlo, per dirla in modo blando. E
semplicemente così, sbottò. E questo, cazzo, che si prospetta. Decadenza da
ogni parte. Basta che ti guardi intorno, gridò. Non riesci cazzo più neanche a
parlare. Quand'è l'ultima volta che hai fatto una conversazione? Dev'essere
stato anni fa, pensò assorto. Se vuoi trovare qualcosa che per te abbia un
senso devi andare a rovistare in mezzo a un pantano di interessi economici,
aggiunse. Si può ammutolire per meno. Ma loro chiamano questo pantano
democrazia. Anzi, se io lo chiamo pantano vengono a dirmi che disprezzo il
popolo, pensò indignato. E forse hanno ragione, pensò assorto. Forse non credo
più alla democrazia. Senti, adesso smettila, Elias. Adesso sei sbronzo, si
disse severo, e per sicurezza lo disse ad alta voce, per verificare se
biascicava un po', e con grande sollievo lo constatò. Ma la cosa si ripeteva.
Svariate volte, la sera tardi, oltre mezzanotte, Elias Rukla si sorprendeva ad
avere certi pensieri, e ogni volta si deprimeva. Anche questa! Che nemmeno era
più un democratico in cuor suo! E quale sarebbe stata la prossima?! Era perché
era stato sconfitto? Che la causa della sua sofferenza sociale stava nella
democratizzazione della cultura e anche della vita stessa? Ma lui era contro!
Lo indignava! E allora perché avrebbe dovuto essere un sostenitore della
democrazia, se poi le espressioni della democrazia lo indignavano? Sei sbronzo,
Elias, sentiva nuovamente dire dalla sua voce, vai a letto, è notte fonda. Ma
non andava a letto. Continuava a pensare, più a fondo che poteva. Provava a
consolarsi col fatto che è abbastanza normale che una minoranza sconfitta, e
quasi annientata, abbia difficoltà a rendere onore a chi l'ha sconfitta e alle
armi usate per sbaragliarla in modo così totale. Ma a lui quel dovere toccava,
dal momento che erano stati la voce del popolo e il suo diritto d'espressione a
sconfiggerlo. Mi rifiuto di considerarmi un antidemocratico, pensava
testardamente. Non mi rassegno. Perciò devo ammettere, non senza repulsione,
tutto considerato, che se vuoi presentarti come sostenitore della democrazia,
devi esserlo anche quando sei in minoranza ed essere convinto,
intellettualmente e soprattutto nel tuo intimo, che la maggioranza, nel nome
della democrazia, possa abbattere tutto ciò che tu rappresenti e che significa
qualcosa per te, di più, che ti dà la forza di vivere e resistere, anzi, che dà
una specie di significato alla tua vita, qualcosa che trascende il tuo destino
piuttosto casuale, si può dire. Quando gli araldi della democrazia urlano e
sbraitano trionfanti le loro volgari vittorie, giorno dopo giorno, in modo da
far soffrire sul serio, come soffro io, si deve comunque accettarlo, perché non
voglio che mi si appiccichino altre etichette, pensava. Poi restava immobile,
sprofondato nei pensieri, lo sguardo fìsso davanti a sé per un lungo momento. È
orribile però, aggiungeva, alzandosi di scatto per andare a letto. E poi non ho
più nessuno con cui parlare, sospirava. […]
Non aveva più
niente da dire, e non sembrava nemmeno che ci fossero altri della sua cerchia,
o ceto culturale, che avessero più qualcosa da dire. Sembrava che non
interessasse più a nessuno dialogare. Discutere davvero insieme, tendere
insieme verso una comprensione, di carattere personale o sociale, non fosse che
per la momentanea scintilla di quella comprensione. Da parte sua Elias Rukla
doveva ammettere di non esserne più capace, semplicemente non sapeva più parlare.
Non sapeva nemmeno più come comportarsi per avviare una di quelle conversazioni
cui aveva così spesso partecipato, e che pure anelava a ristabilire. […]
Nella sala
insegnanti della scuola di Fagerborg, si ritrovavano ogni giorno quaranta,
cinquanta individui che erano complessivamente detentori delle conoscenze
generali del nostro tempo […] e sebbene nessuno di quelli lì riuniti fosse un
luminare nel suo campo, capace di elaborare nuove idee nella sua disciplina,
avevano comunque una preparazione abbastanza vasta da essere in grado di
valutare le nuove acquisizioni nel loro campo e capirle, […] Ciò che quindi
colpiva Elias come estremamente singolare, era quanto poco quella riserva di
conoscenze, di più, quell'alto livello culturale influisse sulla personalità
del singolo. Anzi, era come se dovessero negare a tutti i costi di trovarsi a
quell'alto livello culturale e di poterlo quindi usare con la massima
naturalezza come punto di partenza quando si esprimevano. Si presentavano
invece come schiavi dei debiti. Era di questo che parlavano, era quello
l'argomento principale della loro conversazione. Ogni mattina, quaranta,
cinquanta schiavi dei debiti si trovavano con il loro pranzo portato da casa
nella sala insegnanti della scuola superiore di Fagerborg. Si chiacchierava del
più e del meno. Dell'entità del loro debito per gli studi pro tempore e pro
anno, dell'entità del mutuo della casa p.t. e p.a., dell'entità del prestito
per l'acquisto dell'automobile e le rate p.t. e p.a. […] tutti parlavano della propria vita come
schiavi dei debiti presenti o passati, era l'argomento preferito della pausa
pranzo; […]
Era come se
solo partendo da se stessi in quanto schiavi dei debiti riuscissero a vedersi
come esseri sociali, cioè come persone che potevano parlare insieme di qualcosa
che è comune ed essenziale per tutti coloro che partecipano alla conversazione.
Partendo dal proprio livello culturale si nutriva infatti un giustificato
timore di fare un effetto, socialmente parlando, «strano», anzi «innaturale»;
mentre come schiavo dei debiti si viveva una vita sociale quasi drammatica, su
cui si potevano esprimere commenti e intrattenersi e intrattenere gli altri. È
vero che, in quanto schiavo dei debiti, si era un perdente, uno che non aveva
realmente successo, ma questo metteva l'individuo in relazione con la vita
sociale e lo rendeva pienamente moderno. Partendo da sé in quanto schiavi dei
debiti ci si poteva anche lanciare sui giornali e sui programmi televisivi e
provare la gioia di commentare quello che vi si diceva, e che non era altro che
l'espressione delle tendenze diffuse dai leader di opinione; e in quanto
schiavi dei debiti non era così difficile condividere i valori e le preferenze,
addirittura l'atteggiamento di vita che vi venivano espressi. Elias Rukla non
aveva niente da dire, eppure anche lui continuava a parlare di niente. Come gli
altri. Spesso e volentieri con una distanza critica e ironica da tutto, ma pur
sempre di niente. […]
Il dialogo si
era bloccato. La gente dello strato sociale di Elias Rukla non parlava più
insieme. O solo per poco e superficialmente. Praticamente si facevano spallucce
l'un l'altro. Anzi, forse anche l'uno con l'altro in una sorta di ironica
intesa. Perché lo spazio pubblico richiesto da un dialogo è occupato. Vi si
svolgono altre attività, come si suol dire. Si diventa «artificiosi» a starne
fuori e constatare che lo spazio pubblico è occupato. Con «innaturale» sorpresa
si deve constatare che non esiste più. Non esiste più, non esiste più.”
Dag Solstad, uno di noi.
[Dag Solstad – Timidezza e dignità]
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