domenica 23 settembre 2018

Joy Williams – L’ospite d’onore



 “Siamo soli in un mondo senza senso”

C’è solitudine nei racconti di Joy Williams, storie abitate da personaggi che sembrano non saper più comprendere l’altro, incapaci di condividere, chiusi nel loro bozzolo come se una frattura impossibile da rimarginare li separasse dal resto del mondo.
Spesso il motore della trama è un trauma, una tragedia che le persone non riescono ad affrontare, come se non avessero gli strumenti adeguati per farlo. Storie di disagio, di alcolismo (Ossa di balena, Foglie), di incomunicabilità, caratterizzate dal bisogno che qualcuno dica qualcosa e insieme dalla consapevolezza che la gente non sa più parlare: “Parlami” – dice la protagonista di Estate, ma quello che sa dirgli suo marito non è sufficiente. “È stenografia, solo squallida stenografia”.
Tutto è difficile a definire, da mettere a fuoco, anche i sentimenti (“Constance ci pensò su. Forse l’amore non era né l’obiettivo né la risposta. Forse la comprensione era più importante dell’amore, e forse la forma più alta di comprensione era la comprensione di se stessi, delle proprie motivazioni, dei propri desideri e delle proprie capacità. Constance si costrinse a rifletterci, ma l’idea non le piaceva in granché. Lasciò perdere”).
Sono i bambini quelli che incarnano al meglio il contrasto tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere e l’autrice è maestra nel descrivere quel momento della vita in cui le pulsioni non hanno ancora preso la forma di sentimenti, quello stato di provvisorietà in cui sogno e realtà si mescolano. Si tratta di una condizione propria dell’infanzia e dell’adolescenza e che con il tempo dovrebbe portare i personaggi ad evolvere, a definire i propri contorni acquisendo la consapevolezza propria della maturità, ma i personaggi di Joy Williams non sembrano in grado di fare questo passo, rimanendo condannati a vivere in una specie di limbo (“Avrebbe voluto dire qualcosa,” – pensa la protagonista de Il piccolo inverno – “ma no, non era nemmeno quello. Non voleva dire niente. Voleva capire qualcosa che non era in grado di dire.”).
Se la quotidianità si rivela un terreno sterile, nel quale gli attori di queste storie faticano a ritrovarsi, allora il surreale costituisce una via d’uscita quasi obbligata, un modo per spostare le cose su un piano diverso, un piano nel quale una pianta può diventare l’unica compagna di vita (ne Il giardiniere una felce “è circondata da tanto spazio in cui tutto può succedere, ma di sentimenti sa poco o nulla, perché è matta. Quindi è una confidente perfetta.”), una macchina sgangherata può finire in salotto (Ruggine) e una lampada può accompagnare una donna in giro per l’America alla ricerca della sua vera vocazione (Congresso).

Joy Williams racconta le sue storie con frasi brevi, secche, affilate come lame, attenta a lasciar emergere i caratteri dei personaggi più dalle descrizione dei loro comportamenti che da quello che dicono o pensano, seguendo i canoni di un minimalismo che ricorda Carver pur mantenendo una propria originalità.

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