C’è solitudine nei racconti di Joy
Williams, storie abitate da personaggi che sembrano non saper più comprendere
l’altro, incapaci di condividere, chiusi nel loro bozzolo come se una frattura
impossibile da rimarginare li separasse dal resto del mondo.
Spesso il motore della trama è un
trauma, una tragedia che le persone non riescono ad affrontare, come se non
avessero gli strumenti adeguati per farlo. Storie di disagio, di alcolismo (Ossa di balena, Foglie), di
incomunicabilità, caratterizzate dal bisogno che qualcuno dica qualcosa e
insieme dalla consapevolezza che la gente non sa più parlare: “Parlami” – dice
la protagonista di Estate, ma quello
che sa dirgli suo marito non è sufficiente. “È stenografia, solo squallida
stenografia”.
Tutto è difficile a definire, da
mettere a fuoco, anche i sentimenti (“Constance ci pensò su. Forse l’amore non
era né l’obiettivo né la risposta. Forse la comprensione era più importante
dell’amore, e forse la forma più alta di comprensione era la comprensione di se
stessi, delle proprie motivazioni, dei propri desideri e delle proprie
capacità. Constance si costrinse a rifletterci, ma l’idea non le piaceva in
granché. Lasciò perdere”).
Sono i bambini quelli che
incarnano al meglio il contrasto tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere e
l’autrice è maestra nel descrivere quel momento della vita in cui le pulsioni
non hanno ancora preso la forma di sentimenti, quello stato di provvisorietà in
cui sogno e realtà si mescolano. Si tratta di una condizione propria
dell’infanzia e dell’adolescenza e che con il tempo dovrebbe portare i
personaggi ad evolvere, a definire i propri contorni acquisendo la consapevolezza
propria della maturità, ma i personaggi di Joy Williams non sembrano in grado
di fare questo passo, rimanendo condannati a vivere in una specie di limbo
(“Avrebbe voluto dire qualcosa,” – pensa la protagonista de Il piccolo inverno – “ma no, non era nemmeno
quello. Non voleva dire niente. Voleva capire qualcosa che non era in grado di
dire.”).
Se la quotidianità si rivela un
terreno sterile, nel quale gli attori di queste storie faticano a ritrovarsi,
allora il surreale costituisce una via d’uscita quasi obbligata, un modo per
spostare le cose su un piano diverso, un piano nel quale una pianta può
diventare l’unica compagna di vita (ne Il
giardiniere una felce “è circondata da tanto spazio in cui tutto può
succedere, ma di sentimenti sa poco o nulla, perché è matta. Quindi è una
confidente perfetta.”), una macchina sgangherata può finire in salotto (Ruggine) e una lampada può accompagnare
una donna in giro per l’America alla ricerca della sua vera vocazione (Congresso).
Joy Williams racconta le sue storie
con frasi brevi, secche, affilate come lame, attenta a lasciar emergere i
caratteri dei personaggi più dalle descrizione dei loro comportamenti che da
quello che dicono o pensano, seguendo i canoni di un minimalismo che ricorda
Carver pur mantenendo una propria originalità.
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