Vedere
è un processo che parte dagli occhi ma arriva al cuore.
Cosa
diremo agli angeli è romanzo
indubbiamente originale. Il racconto in prima persona di un addetto al
controllo dei passaporti d’aeroporto che osserva la gente passare e intanto
fantastica su quello che dirà agli angeli quando sarà il momento. Il lavoro
manuale (un vano che sta costruendo nella sua casa) è il legame che tiene
ancorato il protagonista alla vita reale, il resto è immaginazione, una sorta
di voyeurismo delicato, immaginare le vite degli altri come modo per guardare
(anche) dentro se stesso.
Cosa
diremo agli angeli è un libro
breve, frasi corte, sincopate, ma cesellate come strofe di una poesia. Ma al
tempo stesso è anche un fiume tranquillo, con Stelzer che dilata il tempo della
narrazione per permetterci di godere della bellezza di ogni singolo istante,
per aiutarci a recuperare il “nostro” ritmo, quello scandito dai grani della
clessidra e non dal cronometro dell’epoca che viviamo. La lentezza è la vera
misura, sembra indicarci l‘autore, quella che ci permette di vedere davvero le
cose, quella che ci consente di fermarci senza provare sensi di colpa, di
lasciare da parte la fretta per apprezzare ogni momento, ogni singolo gesto, di
perderci nel mondo e di perderci dentro l’immaginazione.
Stelzer invita il lettore a
rivedere le sue priorità, a cercare la bellezza nelle piccole cose, nei
particolari secondari, in quello che rimane nell’ombra. Quello che ci propone è
un universo nel quale la realtà si allunga verso il sogno e viceversa, un
vivere languido ma anche malinconico perché il protagonista è consapevole di quanto
la sua esistenza sia sbilanciata verso la contemplazione del mondo, sul
pensiero più che sull’azione, anche se si tratta di un pensiero in grado di
aprire porte su mille mondi diversi.
Come detto, è una vena lirica
quella che attraversa le pagine di questo libro e che accompagna lo sforzo
dell’addetto al controllo passaporti di avvicinarsi al cuore delle cose accontentandosi
però di rimanere sulla soglia, di guardarle come si guarda un fiore che si teme
di rovinare cogliendolo, di vivere rimanendo sempre un passo indietro per paura
della delusione, per paura che lasciarsi toccare dalla felicità possa illuderci
di possederla per sempre.
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