Una sfida. Un libro ostico,
oscuro, a tratti incomprensibile. Una lettura faticosa, spesso estenuante.
Frasi lunghe, ampollose, ridondanti, che più di una volta fanno venir voglia di
scagliare il libro contro il muro (e trattandosi nel mio caso di lettura su
kindle, la cosa potrebbe essere pericolosa). Una scrittura pesante,
respingente, lontana anni luce dalla prosa che siamo abituati a leggere, che
rischia spesso di far calare l’attenzione del lettore, costringendoci a tornare
sulla stessa frase più volte. Ci vuole pazienza con quest’opera, la tentazione
è quella di correre avanti, di saltare qualche paragrafo poco chiaro per
rincorrere la storia, i fatti, le azioni, ma l’autore è li con noi e ci
costringe a rallentare per provare a capire, ad aspettare, a non trascurare
nessuna delle sue parole.
Se le cose stanno così (e,
credetemi, stanno davvero così), perché continuare? Perché La morte di Virgilio è un libro che merita il nostro sforzo, perché
Broch è Broch e la sua lettura premia sempre il lettore.
La trama è il racconto delle
ultime ventiquattro ore della vita di Virgilio, da quando il poeta, malato e
ormai lucido solo a tratti, arriva a Brindisi al seguito della flotta di
Ottaviano Augusto, fino alla sua morte. La storia è come una sinfonia musicale
in quattro parti, caratterizzate ognuna da un ritmo diverso e sviluppate con
uno stile che avvicina la poesia lirica.
Virgilio, prossimo alla fine,
prova a fare un bilancio della sua vita e si rende conto di non aver ottenuto
nulla di quello che si proponeva, quello che rimane del suo tentativo di trascendere la natura umana per raggiungere
un’eternità impossibile è un pugno di mosche, la consapevolezza che la vita
dell’uomo è simile a quella di un naufrago e che alla fine di tanto vagare ci
si ritrova sempre al punto di partenza. Virgilio ha fallito perché la poesia
(lo strumento al quale il poeta si era affidato per arrivare alla Verità) ha
fallito e la Bellezza alla quale egli anelava non era altro che la fuga in un
mondo di illusioni, una prigione sterile perché incapace di ulteriori sviluppi.
Per Virgilio/Broch la Bellezza non
salverà il mondo, e l’Artista che si abbandona ad essa sacrifica la ricerca
della conoscenza, sacrifica il contenuto in nome della forma. Bruciare l’Eneide
è la conseguenza di questo suo ragionamento e se alla fine il poeta desisterà
dal suo intento è solo per ottenere dall’Imperatore la libertà dei suoi schiavi
e del denaro per il popolo di Brindisi, riscattando così in qualche modo il suo
fallimento.
L’ultima parte di quest’opera è poi
una specie di inno con pagine di rara bellezza formale, un viaggio verso
l’Assoluto e un ritorno nel mondo degli uomini nel quale tutto si mescola e si
confonde come in una grafica di Escher, come se il Tempo fosse un unico istante,
con il giovane Lisania a farci da guida simile al Virgilio della Commedia che poi muta in una Plozia molto
vicina alla Beatrice del Paradiso, in
una metamorfosi continua di incomparabile bellezza.
Con La morte di Virgilio Broch si muove lungo una linea ideale che è
quella dell’Ulisse dantesco, del Rilke delle Elegie Duinesi, della Cvetaeva e che arriva, azzardo, fino a Cărtărescu.
Una corda sospesa sulla testa degli uomini, un tentativo di indossare le ali di
Icaro sapendo già di finire bruciati.
Il filosofo Günther Anders ha
definito questo libro “un libro per nessuno” e credo che non abbia tutti i
torti. In effetti si tratta di una lettura che non mi sento di consigliare a
nessuno ma anche di un viaggio affascinante ai confini dell’uomo che porterò
sempre con me.
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