Ognuno vola come può
Secondo romanzo del "ciclo di
Benfica" ed ennesima prova di bravura di uno dei due Dioscuri (l'altro è
Saramago) della letteratura lusitana
moderna. Lobo Antunes è una specie di Omero contemporaneo e la trilogia della
quale questo libro fa parte una sorta di racconto epico delle trasformazioni
del Portogallo novecentesco (paese «dove tutto ristagna e s'immobilizza nel
tempo»), narrato con la consueta scrittura rigogliosa e ricca di metafore, qui
arricchita da venature quasi surreali.
La Lisbona che emerge è lontana
dalle immagini da cartolina, è una città grigia nella quale i protagonisti del
libro galleggiano tra indifferenza ed egoismo. La trama scorre con un ritmo
lento, intrecciando tra loro le esistenze di uomini e donne che vivono di
espedienti (c'è anche un venditore di corsi di ipnotismo per corrispondenza),
travolti dal corso della storia, incapaci di vivere nei tempi mutati e
costretti a trascinarsi per le «strade dell'amarezza» nelle vie del quartiere
di Alcântara sotto la cappa di un'atmosfera rarefatta, sospesa tra realtà ed
invenzione («sospesi in una specie di limbo, a parlare di niente, circondati da
tetti e alberi e gente immateriale, in una Lisbona immaginaria che digrada
verso il fiume in un confuso affastellamento di vicoli inventati»).
La trama si snoda come la tela di un ragno: discorsi
diversi si intrecciano, ogni personaggio nel raccontarsi aggiunge qualcosa alla
storia dell'altro, parole, musica (ma non comprensione), voci che tessono la
storia del Portogallo del secolo trascorso e si organizzano in un romanzo
polifonico caratterizzato da quei salti spazio-temporali e dai cambi di prospettiva a cui Lobo Antunes ci ha
abituato.
Si vive di disincanto, di amori
non ricambiati, figli del bisogno e costruiti sull'acqua, si vive di ricordi
che continuano a tornare a galla rifiutando di perdersi nelle nebbie della
memoria. «Ognuno vola come può», dice uno dei protagonisti, ognuno è perso
dentro la propria storia: chi continuando a credere di essere in miniera a
Johannesburg, chi isolandosi nel silenzio in manicomio, chi dentro la malattia,
chi cercando di costruirsi un progetto di vita zoppicante e provvisorio… si
vive soli. I personaggi che incontriamo nel libro sono uomini e donne chiusi in
un passato che non è mai passato davvero e che cercano di vivere come possono,
chi immaginando di essere sottoterra e chi in cielo, perché l'importante è
volare, non restare costretti dentro ad un presente angusto.
Il passato è come l'onda lunga che
torna sempre ad accarezzare la riva: l'Africa coloniale, la Polizia Politica i
tentativi di golpe… ricordi, che come nel Trattato
delle passioni dell'anima costituiscono la sola certezza, l'unica cosa che
ci resta, da custodire per non farli morire, e poco importa se siano belli o
brutti.
L'ordine
naturale delle cose è una lenta
elegia, un lungo addio alla vita, al tempo passato che era il tempo dei
personaggi di questo libro, quel tempo nel quale erano vivi, lontanissimo da un
presente confuso che scivola via senza lasciare segno di sé.
«Così come cadono gli alberi io
cado e cadendo cado come cadono lentamente e lievi le foglie e le ombre e io le
sento piangere e parlare con me e non posso rispondere mentre cado perché se
rispondessi cosa direi se non che sto crollando come crollarono un tempo mio
padre mia madre mio marito improvvisamente silenziosi e immobili e bianchi come
la luce in questa casa tanto bianca sui mobili bianchi gli specchi
restituiscono il silenzio e le loro lacrime e domani saliranno con me lassù in
cima e senza parole oltre a quelle del prete volgeranno il mio viso verso il
sole.
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