«Capire,
capire… Tu capisci per caso?»
«Non
lo so, probabilmente no. Comunque ormai non servirebbe a nulla».
Un libro che prende le mosse dal
capitolo 62 di Rayuela e in puro stile cortázariano si propone di scardinare le
regole del romanzo classico per avventurarsi in terreni non battuti. Lo fa
partendo da una frase di stampo oulipiano ("Vorrei un castello insanguinato",
aveva detto il cliente corpulento) per dare inizio a una serie di riflessioni su
un libro di Michel Butor, su una donna misteriosa (Hélène, o forse una contessa
o forse una Frau Marta) e sul caso ("Perché sono entrato nel Polidor,
perché ho comprato il libro e l'ho aperto a caso e altrettanto a caso ho letto
una frase qualsiasi appena un secondo prima che quel cliente corpulento
ordinasse una bistecca quasi cruda?"). Un libro sull'inutile desiderio di
capire, sul tentativo di interpretare tutto quello che accade come fosse segno
di qualcosa, come traccia da seguire per identificare una pista che in realtà
non esiste e che pure ci ostiniamo a cercare.
Si sale per una strada ricca di
curve, avviati su meandri pericolosi che puntano dritti verso la palude dei
meccanismi interiori, un luogo nel quale memoria e fantasia finiscono per
confondersi conducendo la nostra ricerca della conoscenza su un binario morto.
Eppure.
Eppure "qualcosa mi lascerai
fra le mani", pensa il protagonista. L'uomo non si arrende, non arretra
davanti al vuoto e non rinuncia ad interrogarsi, perché vive di domande più che
di risposte. La soluzione all'enigma diventa un dettaglio perché quello che
interessa l'uomo e lo attrae come la luce la falena è l'enigma stesso. Il
modello è Ulisse, il viaggio dell'uomo alla scoperta del mondo e di se stesso.
E il viaggio che ci propone Cortázar
- è bene ribadirlo - non prevede per il
lettore comodi scompartimenti di prima classe ma una dura camminata attraverso
sentieri impervi con passaggi repentini dalla narrazione interna al punto di vista esterno, continui cambiamenti
di scenario tra Londra, Parigi, Vienna, Mantova… e un frenetico alternarsi di
personaggi dei quali si fatica a ricostruire i rapporti e che vivono più di
sogni che di realtà, non ancora integrati e organici alla società.
Lispectoriano? Forse, ma se l'occhio dell'autrice brasiliana guarda indubbiamente
verso l'interno, quello dello scrittore argentino sembra rivolto anche verso
l'esterno (la "Città", la "zona"). Lispectoriano? Per certi
versi sì, e penso alle riflessioni di Cortázar sulla costruzione da parte dei
personaggi del libro di un alfabeto privato, che permette loro di comunicare
escludendo gli altri e soprattutto al linguaggio inteso come "arte
combinatoria di ricordi e circostanze" che invece di aiutare falsifica al
punto che seguendo il suo punto di vista si potrebbe arrivare a definire la
vita come una specie di gioco nel quale la colpa della fine della storia
d'amore di Juan con Hélène è dovuta ad una lettura sbagliata delle carte,
sapendo che "qualcosa che non siamo noi gioca con questo mazzo di carte in
cui siamo picche e cuori ma non le mani che le mischiano e le combinano, gioco
vertiginoso nel quale riusciamo soltanto a conoscere la sorte che ci tesse e
disfa a ogni giocata, la figura che ci precede o ci segue, la sequenza con la
quale la mano ci propone all'avversario, la battaglia di azzardi e di scarti
che decide la posta e i ritiri". Eppure "io continuerò a cercare il
varco, Hélène, tutto mischierò di nuovo per incontrarti come voglio."
Già, il varco. Un passaggio
stretto e non per tutti, una specie di porta su un'altra dimensione che
permette ai personaggi del libro di incontrarsi a un livello ideale più che
reale, su una zattera astratta che galleggia sospesa sul mondo e che
rappresenta la loro salvezza ("La nostra salvezza è una vita tacita che ha
poca attinenza con il quotidiano o l'astronomico, un influsso spesso che lotta
contro la facile dispersione in qualsivoglia conformismo o qualsivoglia
ribellione più o meno privi d'iniziativa propria, […] la vita come qualcosa di
estraneo di cui bisogna però prendersi cura").
Quello che Juan e gli altri
cercano, quello che Cortázar cerca, è in sostanza la libertà. Dalle parole, dai
vincoli, dalle convenzioni. Libertà di essere come si è.
Inutile aggiungere altro, così
come aggiungere dettagli di una trama che sembra costruita apposta per
spostarsi un po' più in là ogni volta che si cerca di avvicinarla o, peggio, di
comprenderla. La mia chiave di lettura per avvicinarsi a Componibile 62 è quindi più emotiva che logica e in questo mi sono
di conforto le stesse parole di Juan:
"Che senso aveva spiegare? Il
semplice fatto che fosse necessario dimostrava ironicamente la sua
inutilità".
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